Autore
Talco
“Viene voglia di staccare la spina e smettere di elemosinare un po’ di speranza”.
(frase scritta sulla parete di una cella di un ergastolano).
Questo articolo ha come obbiettivo quello di riflettere sui sistemi di schiavitù e oppressione che nascono all’interno delle carceri italiane fino ad arrivare alle reali motivazioni che portano gli individui ad essere considerati “delinquenti”. L’analisi sociale degli “emarginati” e dei detenuti nelle carceri è unita dal fatto di essere entrambi vittime e carnefici di un sistema che, se da un lato li condanna e punisce sulla base delle loro azioni, dall’altro non permette una rieducazione e integrazione all’interno della società in cui vivono.
Le riflessioni che leggerete nascono dagli scritti, studi e libri di Giulio Salierno tra gli anni 1970 e 2008. Sono presenti anche voci direttamente dal carcere di ex detenuti di quel periodo e di corrispondenze recenti raccolte nei blog attuali.
Scrittore e docente universitario, Salierno ha un passato molto tormentato. Si forma negli anni della dittatura di Mussolini, appoggiando pienamente la causa e diventando un picchiatore fascista. Finisce in carcere per omicidio e sente sulla sua pelle la pesantezza delle ingiustizie e repressioni di un sistema che ha come unico obbiettivo l’annullamento del detenuto a favore della rigida autorità dei secondini e del sistema carcerario. Sarà in questi anni che attraverso lo studio in prigione, si avvicinerà alle teorie marxiste e alla necessità di attuare una rivoluzione all’interno del sistema carcerario e nella vita quotidiana. Analizza nel dettaglio le motivazione della classe operaia e disoccupata e di come essa sia più soggetta a delinquere e ad entrare in un sistema discriminatorio rispetto alla classe borghese.
Pone l’evidenza del problema carcerario come problema sociale, dove è necessario restituire la conoscenza a chi ne è stato privato, dando alle classi soggette la coscienza dei meccanismi che consentono la loro repressione, fornendo strumenti per la propria liberazione. I carcerati, gli esclusi non sono l’oggetto della analisi, ma diventano i protagonisti dell’analisi stessa attraverso i dialoghi e le interviste che lo stesso autore riporterà nei suoi scritti.
Giulio Salierno parla per vita vissuta, da carnefice a vittima quale è stato, da sostenitore della violenza come disciplina del controllo a vittima del sistema sociale di cui fa parte. Il suo pensiero non si limita all’analisi del sistema carcerario, ma si sviluppa in una filosofia di lotta proletaria, dove, attraverso la coscienza e conoscenza politica, l’individuo può unire le forze per creare una vera rivoluzione sociale.
“Ho imparato tante, tantissime cose dagli esclusi, italiani e stranieri. A onor del vero, devo tutto ai marginali, ai devianti, ai detenuti. In un certo senso, tutto ciò che so, tutto quello che ho fatto, la stessa cattedra di sociologia, i libri, gli scritti, tutto, insomma, lo devo a loro”.
GIULIO SALIERNO
Nasce a Roma il 31 gennaio 1935 mentre l’Italia fascista si avvia verso la guerra d’Etiopia. La famiglia di origine militare con il culto della patria, gli trasmette gli stessi valori e a soli 14 anni, si iscrive al MSI (Movimento Sociale Italiano). Nel 1952, ancora minorenne è commissario politico giovanile di cinque sezioni del MSI, delegato al Congresso Nazionale e dirigente federale della Giovane Italia. Frequenta figure nel panorama fascista come Pino Rauti, Julius Evola e Giorgio Almirante, coltivando la sua ossessione per l’omicidio di Walter Audisio, ex partigiano Valerio, che era stato l’esecutore materiale di Mussolini a Dongo nel 1945. I suoi rapporti lo porteranno fino in Spagna a incontrare Otto Skorzeny, ex colonnello delle SS che nel 1943 aveva liberato il Duce a Campo Imperatore. Nel 1953 effettua una rapina a mano armata nel quartiere romano dell’EUR, uccidendo la vittima. Tradito da una lettera anonima di denuncia da un compagno dell’MSI, è costretto a fuggire dall’Italia e ad arruolarsi nella Legione Straniera in Africa. Nonostante l’impunità di cui godono gli arruolati, viene arrestato dall’Interpol e mandato nel carcere algerino Sidi bel-Abbès. Qui assiste alle torture dei giovani arabi che lottano per l’indipendenza dalla Francia, solidarizza con i prigionieri, conquistando la stima di quello che sarebbe diventato il Fronte di Liberazione Algerino. Estradato nella prigione italiana di Orano gli viene imputata la sentenza a 30 anni di carcere. Inizia i suoi studi sui testi marxisti e leninisti con un percorso di formazione ideologica e culturale che lo porterà ad essere in futuro, un punto di riferimento per la sinistra italiana. Nel 1968, attraverso il ministro Umberto Terracini, ottiene la grazia ed esce di galera. Dal 1968 in poi, realizzerà numerose pubblicazioni, tra cui “La spirale della violenza” e “Il carcere in Italia”, “La repressione sessuale nelle carceri italiane” e “Fuori Margine” con numerose inchieste sui detenuti, gli agenti di custodia e l’ideologia carceraria, diventando pietre miliari nella sociologia moderna. Lavorerà come sociologo con l’Università “L’Orientale” di Napoli, “La Sapienza” di Roma a Sassari e Firenze, ottenendo anche un riconoscimento accademico ad honorem. Negli anni Novanta si affianca al Centro Nazionale delle Ricerche e all’Università di Tor Vergata a Roma fino a ricoprire nel 2000, il ruolo di docente presso la facoltà di Giurisprudenza di Teramo. Muore a 71 anni il 27 febbraio del 2006.
IL SISTEMA CARCERARIO
L’entrata in carcere di un detenuto inizia dalla perquisizione che ha come obbiettivo l’annullamento della personalità. L’effetto è deprimente. Vi è un attentato alla persona, sottoponendo il carcerato a umiliazioni che mai avrebbe pensato di sopportare. Se si ribella, viene punito violentemente. Gli oggetti personali vengono tolti e sostituiti da una coperta, un paio di lenzuola, cuscino, federa. L’arresto porta il detenuto a spogliarsi dei suoi beni, delle abitudini, modi di agire, del linguaggio, tutte cose che erano proprie durante la vita civile. L’uomo recluso deve diventare grigio, triste, meccanizzato come un robot arrivando a sottoporsi alla rigida ubbidienza dell’autorità, al suo totale controllo e nel peggiori dei casi al suicidio: “Un compagno di qui, circa un mese fa è stato a Sollicciano per un’udienza. L’hanno messo con un detenuto dicendo che stava un po’ giù. Lui ci ha chiacchierato, ha tentato di tirarlo su e sembrava che si fosse rasserenato. Il secondo giorno il compagno è voluto scendere all’aria. È risalito neanche dopo dieci minuti, perché gli era montata l’ansia. Tornato in sezione ha trovato il suo compagno di cella morto impiccato. La guardia non se n’era accorta e, per quanto sia stato inutile, sono stati i detenuti a tentare di rianimarlo. La guardia era inibita dalla paura e inizialmente non è arrivato nessun medico. Per il nostro compagno è stata una brutta esperienza: mentre ce la raccontava piangeva”. (Alberto, da 28 anni in carcere, detenuto a San Gimignano – Tratto dal Blog “Voce Libera”).
Se il detenuto si ribella viene sottoposto a punizioni: vi sono le celle di isolamento che privano ogni contatto con altri reclusi, sono vietate le visite coniugali e talvolta vi è il pestaggio da parte degli agenti di custodia con calci, pugni e manganellate. Al contrario, se obbedisce alle regole del sistema, vi sono dei “premi”, come disporre di carta da lettere per scrivere, l’uso della forchetta, razioni extra di cibo e la possibilità di svolgere lavori all’interno del carcere. Il sistema dei privilegi-punizioni porta ad una meccanizzazione della vita carceraria invogliando il detenuto alla buona condotta attraverso il ricatto morale (e fisico) della paura. “Mi trovo nel carcere di Livorno. Ho già chiesto di poter parlare con il coordinatore responsabile della sezione e, molto probabilmente, finirò in isolamento nelle celle di punizione perché non ho nessuna intenzione di stare in tre in una cella che è stata costruita per un detenuto. Mi hanno già informato che a chi sceglie questa strada gli viene fatto rapporto e denuncia. (Roberto, da 23 anni in carcere, detenuto a Livorno – Tratto dal blog “Voce Libera”).
La possibilità di svolgere dei lavori all’interno del penitenziario è un privilegio oltre ad essere un modo per occupare il tempo del detenuto. Nasce con l’intento della rieducazione attraverso un salario molto basso (2,50 euro l’ora), ma è un vero e proprio sfruttamento di manodopera soprattutto per le aziende e cooperative che hanno sgravi fiscali nell’impiegare ex detenuti come forza lavoro. (Per approfondire leggi “Il lavoro dei detenuti è un business”, l’Espresso, 2013). La rieducazione, diventa quindi, una scusante e influisce nel denigrare l’individuo, che una volta riabilitato, si ritroverà emarginato e sottopagato.
Lo stesso sistema spesso è applicato agli individui liberi che vivono nella società civile e che sono costretti a lavorare senza un minimo sindacale, in nero, senza contributi o malpagati. La denigrazione della personalità diventa un mezzo di sottomissione e di asservimento al sistema, toglie energie e impedisce la ribellione.
Altra pratica diffusa ampiamente nel carcere è la Religione. Il regolamento del 1891, precisò le mansioni dei cappellani e ribadì la loro qualifica di "personale aggregato", destinandoli "all'adempimento delle pratiche religiose". I loro compiti si risolsero per lo più in una attività di vera e propria collaborazione con l'autorità carceraria. Le visite, la cura dei registri sulla moralità dei detenuti, le relazioni periodiche concernenti l'andamento del servizio, la partecipazione ai procedimenti di inflizione delle punizioni o di erogazione dei premi, le conferenze morali ed educative; le prediche e i sermoni erano invece ascrivibili alla immediata finalità dell'organizzazione carceraria e miravano per lo più al perseguimento dei suoi scopi. Questa parte non prevedeva infatti, alcuna garanzia personale di libertà religiosa e nessuna reale considerazione degli interessi religiosi dei detenuti. L’avvento dell'ideologia fascista trovò la sua completa attuazione con il nuovo regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena, approvato con r.d. 18 giugno 1931, n. 787. Le norme del regolamento non si discostarono molto da quelle contenute nel provvedimento del 1891.
La legge del 1975, elimina l'imposizione delle pratiche religiose ai detenuti, riconoscendo per la prima volta la loro libertà religiosa, conformemente all'art. 19 della Costituzione e alle previsioni contenute nelle Regole Minime dell'O.N.U. (Regola 6) e del Consiglio d'Europa (Regola 5). I suoi compiti sono stati essenzialmente ricondotti alla natura religiosa della sua funzione e consistono nell'organizzare e presiedere alle pratiche di culto e nell'istruire ed assistere i detenuti. Dalla antica posizione di "aggregato, il cappellano è passato a quella di "incaricato". Per maggiori informazioni leggere “l'assistenza religiosa ai carcerati nell'evoluzione del sistema penitenziario italiano”
La religione, tutt’oggi, ha come obbiettivo quello di “sedare” il detenuto asservendolo alle regole del penitenziario, oltre a fungere come espiazione delle proprie colpe. Spesso, è usata anche per colpevolizzare le pratiche omosessuali all’interno del carcere generando sensi di colpa e vergogna nei detenuti oltre ad essere utilizzata come strumento di sostituzione delle pratiche sessuali.
La violenza carceraria è espressa anche nella struttura degli edifici edili costruiti come mezzo di oppressione: i muri sono spesso decrepiti, i cortili privi di verde, le piccole dimensioni e le porte di ingresso delle celle sono basse così da obbligare i reclusi a chinarsi per entrare e uscire, ricordandogli la sua totale subordinazione al sistema. D’estate, le piccole finestre da cui entra poca luce e aria e il cemento rendono le celle dei forni. Il compito dell’architettura dovrebbe essere quello di progettare luoghi in base alle reali esigenze e bisogni dell’uomo, ma gli edifici contribuiscono al massacro psichico e fisico di coloro che le abitano. “Qui continua la calma piatta più totale e un caldo disumano contribuisce alla stasi. Nessuno cucina più: l’idea di accendere il fornello ci terrorizza. Già la notte sto incominciando a dormire a terra, e chi se ne frega degli scarafaggi. Tutta colpa di queste dannate bocche di lupo in plexiglass: sembra di stare in una serra. Per assurdo, all’aria fa più fresco anche in pieno sole. Infatti, ormai, alla fine ci ritroviamo un po’ tutti a sonnecchiare e a cercare di assorbire il fresco del cemento negli angoli più bui”. (Pasquale, da 30 anni in carcere, detenuto a Spoleto, 2016 – tratto dal blog “Voce Libera”).
Un esempio eclatante del potere esercitato dal sistema attraverso gli edifici è dato dal Carcere di Santo Stefano costruito sull’isola di Santo Stefano vicino all’arcipelago delle Isole Ponziane, attualmente in disuso. Insieme al Carcere di Campobasso (ancora attivo) sono due edifici costruiti secondo la filosofia di Jeremy Bentham e i principi del Panopticon (“che fa vedere tutto”). Grazie alla sua forma radiocentrica dell'edificio e ad opportuni accorgimenti un unico guardiano poteva osservare (optikon) tutti (pan) i prigionieri in ogni momento, i quali non dovevano essere in grado di stabilire se erano o meno osservati, portando alla percezione da parte dei detenuti di un'invisibile onniscienza da parte del guardiano. Secondo Bentham, doveva essere “un nuovo modo per ottenere potere mentale sulla mente, in maniera e quantità mai vista prima". Nel carcere di Santo Stefano, durante il periodo fascista, venne imprigionato Sandro Pertini, futuro Presidente della Repubblica Italiana.
LA REPRESSIONE SESSUALE NELLE CARCERI
La repressione sessuale all’interno del carcere mira a gestire gli impulsi di ribellione dei reclusi per strumentalizzare le componenti fisiche ed energetiche, impedendogli di trasformare la propria angoscia in opposizione al sistema carcerario. Il detenuto regredisce ad uno stato infantile, cerca protezione e rassicurazione nell’istituzione attraverso l’obbedienza. L’obbiettivo è indebolire il senso critico, rafforzare la convinzione dell’inutilità delle proteste, privarli delle opinioni personali, della propria individualità.
“Qui la vita è triste, monotona, i giorni sono diventati lunghi e le notti ancora di più. Prima per le condizioni carcerarie e poi perché da circa tre mesi non sto bene con la salute. Sono ripiombato nel buio più totale: non faccio nulla dalla mattina alla sera, non mi confronto più con nessuno, non metto in gioco né i miei pregi, né i miei difetti. Non riesco più a odiare nessuno e questo non fa altro che farmi ammalare perché se prima imprecavo e odiavo questo mi dava la giusta carica per sopravvivere, mentre adesso che non impreco e non riesco a odiare mi sento morire ogni giorno. Ciò che non so più rivolgere verso gli altri lo uso contro di me. E sono certo che questo mi porterà al disfacimento”. (Giuseppe, da 26 anni in carcere, detenuto a Sulmona. Tratto dal blog “Voce Libera”).
Marx sosteneva che “la più alta funzione del corpo è l’attività sessuale” mentre E. Fromm che “è compito del carattere sociale modellare e inquadrare l’energia umana all’interno di una data società allo scopo di mantenere in funzione questa società”.
Il carcere è un luogo di detenzione all’interno del quale i detenuti sono divisi per sesso, uomini e donne, creando una struttura omofila del recinto internante. Questo porta ad instaurare rapporti di adattamento sociale che diverranno funzionali per la propria sopravvivenza e salvaguardia. Il generarsi di rapporti omosessuali è dovuto al contesto nel quale il recluso si ritrova (“Liberare tutti i dannati della terra”, Roma ed. Lotta Continua, 1972).
Per arginare il problema della sessualità il sistema carcerario offre possibilità di lavoro al recluso, incanalando la sue energie. Questo sistema è però utilizzato per un ulteriore controllo e sottomissione al regime carcerario. Il lavoro non è rieducativo né produttivo. Per il detenuto, lavorare non significa impegnarsi, ma occupare il tempo .
“All’interno di un carcere l’omosessualità diventa un rito e l’80% dei reclusi attiva atteggiamenti omosessuali”. (Intervista al detenuto R.M.). La mancanza di una presenza femminile porta i reclusi a grosse sofferenze e la conseguente ricerca di alternative come pura espressione di un desiderio fisico. Gli omosessuali dichiarati hanno il ruolo di “valvola di scarico” delle tensioni sociali all’interno del carcere diventando “distrazioni” nei penitenziari. Lo staff dirigente vieta tali atteggiamenti e attua punizioni fisiche come sistema di repressione. Se gli omosessuali dichiarati vengono ghettizzati dagli altri detenuti e talvolta inseriti in aree particolari, i comportanti omosessuali sono la norma e avvengono di nascosto. Molti detenuti, fanno sesso lontano da sguardi indiscreti per non perdere la propria virilità maschile agli occhi dei compagni di cella.
La sessualità è l’energia produttiva per eccellenza. Reprimerla significa sregolare l’apparato psichico ma anche le funzioni vitali fondamentali portando in alcuni casi a comportamenti irrazionali e alla follia. La repressione genera rabbia e stress che verrà sfogata verso i propri compagni di cella, andando a favorire la violenza da parte dell’istituzione. In questo caso gli organi istituzionali avranno strada spianata per aggredire e mortificare il detenuto, sottomettendolo alle regole carcerarie e abusando talvolta del loro potere. Si viene a creare di conseguenza, un sistema che genera e alimenta violenza, sia da parte dei detenuti che degli agenti di custodia, lasciando cicatrici su entrambi i fronti. (vedi capitolo sugli Agenti di Custodia).
I reclusi, una volta riavuta la propria libertà, potrebbero faticare a riadattarsi alle norme comportamentali che avevano prima di internarsi. La difficoltà a riavere rapporti eterosessuali con altre donne o compagne porterà l’ex detenuto al disagio fisico e psichico. L’uomo uscito dal carcere non è un uomo sicuro di sé. È cambiato psicologicamente. Il desiderio di tornare alla sua vita sociale si scontra con due vere esigenze:
Il carcere che non ha una vena rieducativa dei detenuti, ma repressiva, modella i bisogni umani, li trasforma rilasciando uomini diversi che faticheranno a riadattarsi alle norme sociali. Questo porta gli ex detenuti a voler inconsciamente ritornare all’interno del sistema di detenzione per ricercare norme e comportamenti a lui familiari e riavvicinarsi ad una realtà che lo include e non lo emargina. “Il problema che avverto come assistente sociale è che quando uno è stato dentro per un certo periodo di tempo, un volta fuori non è più abituato ad affrontare il mondo della realtà e libertà, ha paura perché è vissuto in un luogo dove altri hanno deciso per lui. Si crea un mondo artificiale una barriera tra internato e mondo esterno [...]. Di fronte al traffico, per uno che è uscito dopo dieci anni è come sbarcare sulla luna. La realtà che conservano e che hanno deformato fantasticamente, li fa anche ragionare in modo diverso” (Intervista al dottor Fatarella, assistente sociale a Regina Coeli).
“Se originariamente, il malato soffre della perdita della propria identità, l’istituzione e i parametri psichiatrici gliene hanno costruita una nuova attraverso il tipo di rapporto oggettivamente che hanno con lui stabilito, e attraverso gli stereotipi culturali con cui lo hanno circondato” (Franco Basaglia).
Il sistema carcerario è lo strumento oppressivo delle masse per l’asservimento spirituale ed intellettuale dei reclusi. Non è un caso che negli anni Settanta e Ottanta vi siano state diverse rivolte all’interno delle carceri causati dallo stress che lo stessa sistema rigido gli ha imposto.
“In carcere entri delinquente ed esci criminale” (Daniele D. italiano, 37 anni, rapinatore). Il sistema non condanna solo alla delinquenza perpetua ma anche all’esclusione perpetua. Coloro che una volta usciti di prigione, cercheranno di riadattarsi al contesto sociale, troveranno serie difficoltà. La società non fornisce i mezzi e la rieducazione necessaria per una corretta reintegrazione. Se non trovano una casa, un lavoro e una situazione per conformarsi, gli ex detenuti, torneranno a ricadere negli stessi schemi sociali e compiere le azioni illegali che li hanno portati alla reclusione. Nel peggiore dei casi, se anche le relazioni con altri individui non saranno ristabilite l’ex detenuto avrà il desiderio/necessità di rientrare in un contesto familiare in cui ha vissuto per anni: la galera. Il sistema carcerario, diventa di conseguenza, l’unico luogo in cui poter socializzare e condividere il proprio status, un luogo di accettazione dell’esclusione. (Si veda la testimonianza del video di alcuni detenuti sul sito www.carceretorino.it tratte dal progetto “ReVisioni”).
“Di rado in Inghilterra, il crimine è il prodotto del peccato. Quasi sempre è il prodotto della fame” sosteneva Oscar Wilde. I detenuti arrivano sempre da una condizione “povera”, sono disoccupati, malpagati, vivono in situazioni precarie e pericolose, hanno abbandonato la scuola dell’obbligo, sono costretti ad accettare il sistema stesso da cui rifuggono e i servizi sociali non offrono sostegni adeguati alla riabilitazione. I più giovani, nati e cresciuti nelle periferie imitano gli adulti, li vedono, frequentano, entrano in una dimensione in cui l’illegalità è “giusta”. Crescono con questi valori. La violenza come offesa diventa la chiave di volta con cui tessono i rapporti con il mondo. Il sistema criminale diventa quasi un decalogo, un luogo dove trovare una vita alternativa alla disoccupazione e una giustificazione per la propria sopravvivenza: “Con la Nuova Camorra Organizzata Raffaele Cutolo offriva aiuto economico e assistenziale legale agli imputati e ricercati appartenenti alla sua cerchia. Dava uno stipendio agli affiliati e in caso di arresto continuava a sovvenzionare le loro mogli e figli. In una zona come Napoli, con il più alto tasso di disoccupazione, abituata al lavoro in nero, Cutolo offriva lavoro, assistenza, protezione e prestigio” (Benito L. Italiano, 38 anni, Camorrista).
La xenofobia tra le diverse culture straniere e italiane diventa uno dei principali motivi di discordia, alimentando la diversità e sfavorendo l’inclusione. La situazione degli extracomunitari senza un alloggio, privi di lavoro e di documenti, con difficoltà maggiori ad integrarsi nella società, crea i “ghetti”, unico strumento per difendersi e preservare le loro radici. Le varie etnie non creano alleanze tra loro, anzi, spesso si combattono a vicenda. I marocchini non vanno d’accordo con i tunisini e algerini, i bengalesi non amano i pakistani, gli albanesi odiano i serbi e l’unione avviene solo per grandi aree: arabi, contro neri, asiatici contro africani. I cinesi sono contro tutti. Lo straniero vede gli altri immigrati come concorrenti. La cultura di ogni etnia diventa occasione di conflitto dato dalla macellazione della carne, riti matrimoniali, feste, abiti. “Se in Italia non sei delinquente, ci diventi. Se finisci a dormire sotto i ponti, se non hai o perdi il lavoro, se ti ammali, se nessuno ti pensa, dovrai pur ugualmente mangiare, vestirti...[...]. Prima che uno straniero riesca a fare il medico o l’architetto come un italiano passeranno ancora cent’anni. Proprio voi, che siete un popolo di emigrati trattate gli stranieri come pezze da piedi” (Enver B. albanese, 31 anni, spacciatore).
“Sono venuto in Italia per lavorare non per fare l’assassino e il ladro. Non sono un clandestino, dovrei poter avere il permesso di soggiorno [...]. Faccio il delinquente perché altrimenti non saprei come mangiare e dormire (Robert O. Keniota, 29 anni, scippatore).
In Italia, il sistema della repressione sessuale non è solo presente nei penitenziari, ma anche nella società quotidiana. La repressione sessuale porta a favorire l’aborto, il comportamento sessista e maschilista entrambi legati ad una logica cattolica religiosa che fa da collante alla repressione dell’individuo stesso. Nella storia Italiana, non si riscontrano vere e propie rivoluzioni che possano aver portato ad un cambio del sistema culturale, riscontrabile nella rivoluzione francese del 1789 o dell’URSS nel 1917. Questa assenza rivoluzionaria ha portato alla conservazione di alcune istituzione e norme più proprie al sistema feudale che a quello capitalistico.
Con il termine “delinquente” si intende colui che è stato condannato per aver violato la legge borghese del sistema capitalistico, l’uomo che non si è conformato alle leggi sociali. In questo settore, però, non compaiono mai criminali in giacca e cravatta, responsabili degli omicidi sul lavoro, di evasione fiscale o di truffe, imprenditori, commercianti, banchieri che fanno affari da milioni di euro, ma solo i “poveri”, gli operai, i cittadini, colpevoli di aver rubato un mandarino o di aver provveduto alla propria e familiare sopravvivenza.
Gli “emarginati” sono tali perché così ha voluto la società classista e le loro azioni, oggettivamente errate, nascono come ribellione alla propria condizione di esclusi e reietti. “L’acquisizione di una coscienza politica è la premessa del ribaltamento del ruolo all’interno del sistema: da vittime utili alla classe dominante a combattenti per il socialismo” (Bruce Franklin articolo apparso su Monthly Review 1970). Questi concetti sono stati trattati anche da Marx ed Engels nel “Manifesto del partito comunista”.
Per soccombere a questo problema, gli “ultimi” hanno due vie: rivolgere la propria rabbia e odio contro le altre vittime o prendere la strada del riscatto. La via del riscatto è quella del rovesciamento del sistema, l’esclusione è l’arma di cui si è sempre servita la società classista per consolidare la struttura del potere.
La società colpisce gli emarginati, gli umili e chiude un occhio sulla classe borghese: “La legge non è uguale per tutti. Chi ha i mezzi finanziari e rapporti di amicizia nelle “alte sfere” può dire che in Italia vi sia il sistema giuridico migliore al mondo. Per i poveri, gli indigenti, non rimane che scontare per tutti” (Giulio Salierno).
Secondo Salierno, la rivoluzione della classe operaia deve partire proprio da questo: dalla conoscenza e consapevolezza di arrivare dallo stesso sistema sociale, di dover unire le forze per combattere il sistema capitalistico che li esclude. L’unione di queste forze potrà permettere una rivoluzione del sistema.
AGENTI DI CUSTODIA PENITENZIARIA
“A contatto con i detenuti non stanno degli specializzati ma dei falliti, che si cambiano d’abito appena finito il servizio perché anno vergogna della loro divisa. Del resto basta vedere quanto guadagnano le guardie carcerarie, il titolo di studi richiesto, le zone da cui provengono” (Intervista al professor Giacchiero insegnante presso la casa penale di Alessandria).
Secondo numerose ricerche, se i dati sui carcerati sono scarsi, non esistono dati ufficiali sugli agenti di custodia. Per ovviare a questa carenza Salierno si appoggia a Fontanesi, criminologo e fondatore del Centro di selezione del carcere Roma-Rebibbia.
Le domande di arruolamento sono principalmente di personale non qualificato, di disoccupati, con una scarsa istruzione (titolo di studio richiesto è il diploma di scuola media inferiore) e dal 90% arrivano dalle zone del Sud. Requisiti psico-attitudinali: richiesti maturazione, senso di responsabilità, autocontrollo e buona predisposizione a lavorare in gruppo (vedi bandi di concorso per Agenti di Polizia Penitenziaria).
Il corso per agenti dura 6 mesi, 3 per coloro che hanno svolto il servizio di leva militare. La disciplina è molto dura e fin dall’inizio vengono militarizzati “Il personale deve essere disciplinato, altrimenti non è possibile imporre la disciplina al detenuto” (intervista al Maresciallo Orrù, comandante delle guardie del carcere giudiziario di Palermo). La metà della giornata è occupata da esercitazioni mentre l’altra parte, allo “studio” di 5 materie: nozioni di cultura generale (storia, geografia, grammatica italiana ecc...) regolamento per il corpo, regolamento per i detenuti, elementi di diritto e procedura penale, nozioni di igiene e pronto soccorso. Non vi è alcun accenno al trattamento dei reclusi a parte il dare una limitata confidenza e osservazione del comportamento del detenuto per riferire ai superiori eventuali tendenze. Al contrario si è più chiari sui mezzi da impiegare e per “rieducarli” o sul reprimere gli eccessi.
Il regolamento per gli agenti di custodia si può equiparare al codice penale militare, dove vi è l’assenza dei diritti sindacali di cui possono usufruire gli altri lavoratori. L’avere attribuito lo status militare al corpo di custodia comportava che per gli appartenenti ad essi venissero sottoposti al codice militare in caso di infrazioni quali diserzione e insubordinazione (art.5). Le conseguenze erano l’abbassamento di grado, licenziamento, espulsione e in casi gravi alla punizione e corte marziale che può condannare a sei mesi di reclusione.
Gli agenti hanno l’obbligo di alloggiare nello stabilimento carcerario, subiscono perquisizioni all’entrata e uscita dal carcere, hanno diritto ad un giorno di riposo. Essendo sempre sottoposto a stress, ansie, ad una rigida disciplina, bassa paga e punizioni da parte dei superiori per eventuali errori, sfogano le loro frustrazioni sui detenuti stessi. Spesso, fare l’agente di custodia è un lavoro svolto perché non vi sono alternative lavorative. La loro scelta può essere equiparata alle scelte dei detenuti. Se il carcerato delinque per necessità, per vivere, perché cresciuto in un ambiente povero, lo stesso vale per l’agente di custodia che si mette al servizio del sistema stesso, diventandone un rigoroso esecutore giudiziario. In entrambi i casi, l’ignoranza e la bassa istruzione sono il prodotto del sistema. Entrambi, agenti e carcerati sono vittime della società di cui fanno parte.
Il corpo, originariamente di carattere militare, dipendeva dal Ministero dell'interno, ma dal 1990 è stato riformato nel Corpo di Polizia Penitenziaria, di carattere civile. Nell'anno della riforma il personale di custodia era costituito da 5.280 unità, di cui il 9% era della popolazione detenuta. Lo stato critico degli stabilimenti penitenziari determinate dai numerosi detenuti adibiti ai lavori all'aperto, rendevano insufficiente l'organico, le cui condizioni di lavoro continuavano ad essere massacranti e insufficientemente retribuite. A queste difficoltà si aggiungeva il rigido sistema di disciplina cui era sottoposto il personale, tutti aspetti critici che avevano inevitabilmente riflessi negativi sul funzionamento dell'intero sistema penitenziario.
Secondo un articolo di internazionale datato 15 aprile 2016 il carcere italiano è terzo in Europa per il sovraffollamento dopo Serbia e Grecia e al 31 marzo 2016 erano 53.495 i detenuti italiani. Per l’associazione Antigone, sono “almeno 3.950 le persone prive al momento di un posto letto regolamentare”, a fronte di oltre 49mila posti letto (stando ai dati dell’amministrazione penitenziaria), “non sempre tutti realmente disponibili” e ci sono ancora novemila detenuti che vivono in meno di quattro metri quadrati a testa. “Si è fuori dagli standard minimi previsti dal comitato europeo per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa”, chiarisce l’associazione. A confermare queste tesi, la redazione di TPI (The Post Internazionale) ha pubblicato un reportage fotografico della scrittrice Elena Brenna della situazione carceraria a San Vittore a Milano, datato 2012.
I dati riportati e gli studi effettuati sulle carceri italiane, dai detenuti, agli agenti di custodia, al sistema penitenziario, mostrano enormi buchi. Oltre a regnare un clima di violenza in entrambi i fronti, non vi alcuna attenzione al sistema educativo e rieducativo dei detenuti, ma solo una condotta disciplinare rigida da seguire.
A fronte di questo articolo, è chiaro come la differenza di classe tra “ricchi” e “poveri” “inclusi” ed “emarginati”, sia tale da generare nelle realtà più povere, delinquenza, rapine, furti, spaccio, sequestri, atti compiuti spesso per la necessità di sopravvivenza. Non si vuole certo giustificare tali azioni, o dare scusanti per azioni illegali commesse, ma semplicemente, mostrare un quadro generale di come la criminalità nasca, si diffonda e continui in modo perpetuo.
La fame e la povertà sono la fonte primaria di illegalità, seguite dalla mancanza di una occupazione e di istruzione. I dati raccolti, inoltre, fanno fede a ricerche effettuate sullo status dei detenuti. C’è da sottolineare come, sempre più spesso, ricchi o appartenenti “all’alta società” riescano a sviare le leggi e attraverso le giuste conoscenze e al lavoro di bravi avvocati, evitino le pene carcerarie, eludendo la prigione e finendo al massimo agli arresti domiciliari. Vi è un trattamento molto diverso a seconda dello stato di classe a cui si appartiene e anche l’attuazione delle pene detentive, porta alla ri-educazione di comportamenti, che avranno una ripercussione fisica e psichica completamente differente a seconda degli individui a cui vengono applicate.
Infine, la cosiddetta “guerra tra poveri” che si viene a creare accusando i più deboli di delinquenza (es. gli stranieri) e indicandoli come capro espiatorio per l’eventuale disoccupazione e sofferenza presente in Italia, porta ad un capovolgimento di responsabilità verso le quali volgiamo la nostra attenzione. Come sosteneva già Giulio Salierno negli anni Settanta, è necessario fare “forza comune”, unire le energie per creare una rivoluzione contro il vero potere generato dal Sistema Sociale di cui facciamo parte. Siamo tutti vittime, tutte soggette al potere delle classi dominanti ed è contro di loro che dobbiamo volgere il nostro sguardo.
“Quando milioni di poveracci sono convinti che i propri problemi dipendano da chi sta ancora peggio, siamo di fronte al capolavoro delle classi dominanti”.
ATTENZIONE:
I dati riportati in questo articolo sono inerenti agli studi e libri di Giulio Salierno datati 1972-2008 considerati i più esaustivi sul sistema penitenziario. È probabile che vi siano stati dei cambiamenti ma ad oggi, non vi sono documenti o scritti che attestino studi o condizioni diverse da quelle citate se non informazioni presenti su siti internet, blog e associazioni presenti nella sezione “Approfondimenti”. Se qualcuno avesse fonti alternative è pregato di segnalarlo così da fornire una ricostruzione più attendibile.
Le immagini presenti nell’articolo sono tratte da internet e giornali online sulla base di reportage, e interviste realizzate. Dove è stato possibile reperire informazioni, sono state citate le fonti.
APPROFONDIMENTI:
“Carcere di Torino”, filmati di Davide Ferrario e fotografie di Luigi Gariglio tratte dal progetto “ReVisioni” – www.carcereditorino.it
“Dentro e Fuori” Casa Circondariale Lorusso e Cotugno di Torino
“Detenzioni” – www.detenzioni.eu
“Voce Libera” – www.vocelibera.net
“Associazione Antigone” (per i diritti e le garanzie nel sistema penale) www.associazioneantigone.it
“Next New Media” (service giornalistico multimediale sulle carceri) - www.insidecarceri.com
Mensile Agente di Custodia (1950 -1980)
Viaggio nell'inferno delle carceri italiane – video di Riccardo Iacona (Giornalista di L'Italia in Presadiretta)
“L'assistenza religiosa ai carcerati nell'evoluzione del sistema penitenziario italiano”
“Reportage fotografico sul carcere di San Vittore, Milano – 2012”
BIBLIOGRAFIA
Autobiografia di un picchiatore fascista, di Giulio Salierno - Minimum Fax – 2008 - 14 €
Fuori Margine. Testimonianze di ladri, prostitute, rapinatori, camorristi, di Giulio Salierno – Einaudi - 2001
La repressione sessuale nelle carceri italiane, di Giulio Saliern -, Tattilo Edizioni - 1973.
Il carcere in Italia, di Giulio Salierno e Aldo Ricci – Einaudi – 1971
FILMOGRAFIA
“Starred Up – Il ribelle” regia di David Mackenzie con Ruper Friend
“Cella 211”, regia di Daniel Monzón, 2009
“Felon, Il colpevole”, regia di Ric Roman Waugh con Stephen Dorff e Val Kilmer, 2008
“The Experiment - Cercasi cavie umane” regia di Oliver Hirschbiegel, 2001
“Le ali della libertà”, regia di Frank Darabont con Tim Robbins e Morgan Freeman, 1994
“Sorvegliato speciale”, regia di John Flynn con Sylvester Stallone e Donald Sutherland, 1989
“Fuga da Alcatraz”, regia di Don Siegel con Clint Eastwood, 1979
SERIE TV
“Alcatraz” con Sam Neil, USA, 2012
Oz – Oswald State Penitentiary, USA, 1997
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