Autore
Simone Cutri
Con questa breve racconto scritto ormai quasi una decina di anni fa, auguro a tutti di passare ottime Feste. A presto, Un abbraccio.
"Tuttavia a Natale, sempre si aprirono i regali"
Dicono fosse la tarda serata d’un Luglio tutt’altro che mite. Testimoni oculari, interrogati da curiosi ma non realmente interessati passanti di passaggio, negano l’accaduto. Il decesso è stato archiviato ed ignorato dai più: gli umani, accidenti, ancora non credono si possa morire per Amore.
Aveva camminato e fischiettato tutto il dì, il miserabile, inconscio ancora del suo nefasto destino. Profumandosi per la passeggiata con quella che avrebbe voluto amorosa, aveva ripetuto l’aria d’una canzone d’operetta:
…morirò d’amore
morirò per te…
Mai oracolo fu più affidabile. Obiettivo di un’esistenza intera: trovare finalmente una ragazza che facesse battere il cuore: un sogno divenuto pietosamente realtà.
Giaceva in una pozza di nulla, privo di sangue o tracce di percosse, ematomi ovvero emorragie interne. La sua carnefice, dapprima musa inconfondibile, lo scherniva con sufficienza, sottovalutando l’accaduto e rilanciando sul piatto della vita futura con stereotipate consolazioni. Pretese in seguito, oltretutto, d’essere riaccompagnata a domicilio: inconsapevole, l’assassina, di avere ormai accanto una controfigura.
Fu un silenzio a tramortirlo, un sospiro a ferirlo; infine una frase all’apparenza ambigua, ma, per Dio!, così chiara, a dargli il colpo letale. Infierirono sul cadavere famelici avvoltoi dalle sembianze di parole poco convincenti nel ritrattare.
L’agonia fu brevissima, prolungandosi eppure per millenni. Il dolore acutissimo non durò che un istante, rimanendo in tal modo nell’eternità. Le cervella ebbero un sussulto e tremarono, poi infiammate parvero intenzionate a sfondare le ossa del cranio ed esplodere in un orrendo tripudio. Si stemperarono invece d’un tratto e gelide accompagnarono il brivido all’altezza dello sguardo. Gli occhi parvero staccarsi dall’interno e cadere negli abissi di un’anima vuota di già: il ragazzo fu d’allora incapace di vedere dentro di sé, inetto nel guardare oltre. Ogni muscolo ebbe un fremito, le gambe cedettero senza pugnare. Lo stomaco in subbuglio rivelò per davvero l’esistenza di uno spirito ed il bacino si esibì in un incontrollato tremolio. Un urlo atono, e comunque rauco, rimase inespresso e paralizzò le corde vocali; pure la lingua fu coinvolta nella tragedia. La bocca si straziò di un sorriso diabolico ed allucinato, le labbra come brasate s’insecchirono oltremodo. I capelli persero d’improvviso il sansonico vigore e deboli sfiorirono come fronde autunnali. Ogni nervo fibrillava immobilizzandosi poi per sempre. Il cuore fu stretto da una ripugnante e indescrivibile morsa: subito esaurì i battiti; immediatamente soffocarono gli slanci; copiosamente sanguinò martirizzato. Moriva per sempre l’anima, lacerata. Continuava, in malo modo, forse il corpo. Si verificò sostanzialmente l’opposto di ciò che prometteva la miglior qualità d’oppio per popoli.
Gli adulti nemmeno se ne accorsero. I giovani a dire il vero lo piansero, ma per poco. I bambini, ch’egli ebbe tempo a conoscere, non si ripresero più mai.
Giacque prono quel tanto che bastò ad un furfante per depredarlo: pochi i denari si dovette rallegrare di un anello, un bracciale estravagante e qualche foglietto dal ricco contenuto di versetti dolci ed ingenui.
Null’affatto turbata la folla che non accorse infatti sul luogo del delitto; irreale la calma serafica dell’omicida; placida la serata che beata volgeva alla mezzanotte.
Il cadavere non aspettò il terzo giorno per resuscitare, ma il terzo primo appena: mai si udì di una così rapida rinsavita. La vuota sagoma che rinacque dopo il dramma riebbe i sensi, pur appannati, e continuò a sopravvivere tra i mortali. Il mediocre uomo che ne derivò ebbe la sfrontatezza di mantenere lo stesso nome del defunto predecessore; finanche i lineamenti mantennero le loro proporzioni. Soltanto l’espressione pativa qualche sconvolgimento, ma di poco conto: neppure i più cari in effetti si accorsero della mancanza di quel velo malinconico, a sostegno di deboli speranze, che albergava negli occhi talvolta commossi dell’estinto.
Archiviata la propria genesi e dimenticata, o peggio che mai perdonata, senza eccessivi turbamenti, la femmina fatale, Simone Cutri il mediocre cominciò senz’altro a vivere nel mondo. Si beava di camminare finalmente a testa alta ed insolente non temeva più la morte: morto infatti lui lo era già. Frequentemente aveva fretta nel fare le cose, frenetico nel riempire le giornate siccome vuoto di pensieri importanti, assetato di fatue mondanità. La totale assenza di sentimento e tatto gli procurò molte ammiratrici: a maggioranza ne fece soffrire; qualcuna soddisfò a suo modo. S’inventò d’improvviso qualche passione e si cimentò con scarso effetto nella pratica del canto e della recitazione. Dilettante poi nella scrittura, ugualmente stese parole qua e là: notevoli gli errori di sintassi, macchinose le orchestrazioni, nulli gli apprezzamenti. Riuscì tuttavia nell’affascinare qualche sprovveduto ed a farsi compatire dai buoni di cuore a lui più vicini. Privo di senso dell’umorismo per il più delle volte, ripeteva imperterrito le due o tre bazzecole che avevano riscosso qualche sorriso, pur simile al commiato. Banale in alcune trovate che lui riteneva geniali, veniva schernito alle spalle dalle canzonature dei più. Accettò di gran lena le mansioni affidategli: avvertiva forte la necessità del guadagno. Si arrabbiò sovente per il traffico sulle strade di una qualunque città; fece buon viso ad il passare del tempo che giammai l’avrebbe turbato più del dovuto; progettò addirittura di figliare, ma non s’ebbero conferme circa il concretizzarsi della sua nefasta volontà procreatrice.
Mai più si interessò dell’Amore, forse preda di atavici istinti di difesa. Non ritenne, pari ai suoi simili, che l’innamoramento fosse una variabile influente nelle relazioni stabili di coppia e pare si sposò al grido di: “o ci sposiamo o ci lasciamo”. Non soffrì affatto dei tradimenti della consorte; anzi ne commise anche lui: e per infantile ripicca, e per pigre ma presenti voglie erotiche. A Natale tuttavia, sempre si aprirono i regali.
Perse per intiero la voglia di assistere ad un tramonto rosa, di respirare l’odore del mare non d’estate e di rinfrescare le membra una sera d’aprile. Non faticò ad addormentarsi e mai vegliò fino alle ore più piccole. Decorò le movenze di gesti abitudinari e scontati. Sognò esotiche mete da raggiungere per le vacanze. Criticò infine gli oziosi, puntò il dito contro tutti, poi n’ebbe paura e ritirò pericolosi moti di ribellione. Visse non felice, ma contento.
Eppure il novello e definitivamente mediocre Simone Cutri, pur di rado, rivolge un toccante pensiero al figurato padre. Raccoglie qualche fiore cresciuto a pioggia sui prati e lo mena al camposanto dallo scomparso genitore. Non opere di bene, ma fiori. Profumano, i fiori; senza scopi altri che l’essere belli, colorarsi ad attirare api, innamorarsi del vento: dolce loro intermediario. Sono belli, i fiori, e quindi buoni a tutti i costi. L’uomo che fu riposa sotto all’albero che solo può vantare di chiamare rugiada le sue lacrime, un salice robusto che fragile per natura tuttavia non piange per davvero mai. Si sente una melodia, talvolta, che accarezza quei ricordi ed il mediocre intona una canzone a suffragio. Lo sguardo del visitatore si perde poi al di là dell’orizzonte: ancora oltre non si esauriscono i confini dell’ampio camposanto. Arrossisce il mediocre, omaggiando l’eroe del tempo che fu, e s’imbarazza nel non avere più alti intenti nel vivere. Rimembra con dolore le intenzioni dell’avo che giurava fedeltà alla Poesia, alle Stelle, alla Ragazzina amata più d’ogni altra cosa. Non basta un viaggio soltanto ad esaurire le visite dell’infinito camposanto: altri amici giacciono, parenti perché no. Caduti tutti, soldati implacabili dell’esercito che riuscì nella missione di cambiare il mondo: l’esercito degli innamorati, quelli mai corrisposti. Risuona nella mente del mediocre l’ultimo timore dell’infelice suo creatore: “Non diventare mai stelle”. Lo scuote un sussulto, un respiro vitale: “Tibi Carmen Semper!”.
Poi tutto torna di già nei ranghi, la normalità lo sconvolge, la vita lo deruba d’ogni sublime facoltà.
Dicono fosse la tarda serata d’un Luglio tutt’altro che mite. Testimoni oculari, interrogati da curiosi ma non realmente interessati passanti di passaggio, confermano l’accaduto. Il decesso è stato archiviato ed ignorato dai più: suicidio, accidenti, ancora gli umani non credono si possa morire per Amore.
Simone Cutri
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