Autore
Simone Cutri
È difficile raccontare il proprio tempo quando è il tempo del Nulla; celebrare il passato quando quello immediato è il secolo breve di guerre senza scopo e corsa indemoniata all’industria e l’asfalto; divinare il futuro se lo si immagina ancora più cupo. È difficile, quasi per definizione, riempire una pagina bianca di parole che altri hanno già detto e meglio di noi, non accartocciare i fogli compilati con devozione ma senza metodo, senza più approfondita erudizione classica, senza conoscere la metrica, senza amare per davvero le parole, soprattutto il loro suono.
È difficile, perché l’avvento sciagurato del verso libero ha aperto le gabbie ai sé-dicenti poeti: quelli che tali si credono perché trasmettono un loro pensiero su carta digitale (quando non su un tovagliolo del bar, per costruire il personaggio di se stessi e fingere d’essere stati rapiti da divina ed irrinunciabile ispirazione), utilizzando parole tratte da un lessico che superi appena il ribassato italiano standard ed un registro che a loro appare alto (o peggio, basso apposta), andando a capo più o meno a casaccio, parlando di stati d’animo più o meno a tutti comuni e, infine, facendo il fatale errore: confondere il poetico con la Poesia.
Maledetto sia il verso libero, si diceva, giacché senza porre un limite ben preciso, l’essere umano non farà nulla per superarlo. Intendo qui quella siepe che, proprio coprendo la vista dell’orizzonte a Leopardi, ispirò l’Infinito. Solo la ferrea regola del metro, dell’accento e del suono costringe l’uomo ad accostare parole inimmaginabili, rimandi, analogie, metafore ed ossimori che lo rendono diverso dalle belve e che, spingendosi oltre il normale comunicare, raccontano l’irracontabile respiro che ci lega all’esistenza. La poesia, più d’ogni altra forma, è ciò che ci avvicina perfettamente a ciò che abbiamo vissuto e che ci sfugge e che si crede non poter essere trasmesso agli altri. E queste sono soltanto le parole, i significanti, il “risonar del dire oltre il concetto”; si pensi dunque all’intensità dei non-detti, di quello che nemmeno i migliori poeti sono riusciti a restituire tra una rima al mezzo ed un’allitterazione; si presti attenzione alla pagina bianca; si pensi al silenzio dei poeti.
Tradotti erroneamente per concetto e non per suono, i sé-dicenti poeti d’oggi s’affezionano a presunti colleghi orientali, ignorano il Greco e tentano di svecchiare l’arte andando avanti a cinismi e brutte parole. Non sanno che l’avanguardia è impossibile, perché non c’è nessuna guardia da superare; e non sanno che le pose da maledetti hanno l’unico pregio di evidenziare la loro goffaggine. Organizzano serate e premi che annoierebbero chicchessia e nel pubblico ci sono solo loro stessi che si auto-celebrano e fantasticano di glorie future che non arriveranno mai per colpa dell’editoria di oggi e della gente che non legge più.
Epperò questo è vero: la stra-grande maggioranza delle persone ha a che fare con qualche poesia fino alla quinta superiore e poi mai più. Ed allora, anche qualora si fosse poeti, a che servirebbe scrivere? Ed allora, anche qualora s’azzeccasse qualche verso ermetico, chi lo capirebbe? Un poeta finirebbe per stampare il proprio libro a proprie spese, strappando a malapena uno sconto al tipografo che, allibito, non si sentirebbe di infierire su d’una persona così malandata da voler pubblicare delle autografe poesie. Il libro, ignorato da miliardi d’individui, sarebbe regalato a quei quindici fedelissimi che con grande fatica butterebbero uno sguardo su quelle povere laconiche pagine: come sono tristi le felicitazioni degli amici.
Ecco perché i veri poeti, e questi esisteranno sempre, restano in silenzio a guardare gli altri che s’accapigliano; a guardare le sgargianti pile di libri all’autogrill, tra un culatello e le caramelle Haribo; a guardare ormai impassibili un Occidente devoto esclusivamente alla tecnica e al denaro. Laddove la missione della poesia fosse rappresentata dalla Bellezza e dalla Verità, bisognerebbe ormai cercarle soltanto negli Ultimi, nei non-luoghi e nei silenzi; nei mezzi bui bar dove vecchi marci bevono l’amaro in bicchieri bislunghi a base quadrata che sembrano vasi orfani dello stelo di un fiore finto, nelle case di vecchie zie, mezze buie anche esse; nei biliardi a birilli abbandonati alla penombra, nelle bestemmie dette con vero odio, nei soldi perduti alle corse dei cavalli, nelle braccia spezzate dagli strozzini; nei disperati che dormono in piedi sul treno, tornando dalle venti ore di lavoro, mentre tutti intorno a loro guardano le mappe, organizzano le tappe del viaggio sbrigativo, delle foto che faranno ai piatti, ai monumenti, ai palazzi più alti; nei cattivi esempi, nei campisanti, nei gesti violenti, nei tristi resoconti delle giornate dei piccolo-borghesi, straziati dal lavoro e dalle proiezioni del loro misero futuro.
Andando a perlustrare le case della gente comune, tutte persone per bene, noterete l’assenza di libri di poesia, forse viva soltanto nel loro inconscio, sottoforma sbiadita di una catastrofe scolastica: la parafrasi. Nulla più. Altri, i nuovi colti, avranno qualche libro sparso qua e là e troveranno stucchevoli le forme tronche ed i sonetti: tutti alibi per non perdere troppo tempo, non lavorare troppo su un testo, buttare giù di getto credendo che l’arte si faccia soltanto col cuore e che la tecnica e l’artificio siano segno di freddezza. Vero sarà pure che ogni grande poesia non è mai stata troppo contemporanea, ma mi chiedo davvero se tra trecento anni continueremo a fermarci a Montale o tutto questo silenzio verrà squarciato dal coraggio di un editore, un capolavoro mai scritto, una nuova utopica educazione umanistica alla vita.
Fino ad allora, non resta che tacere, ritagliarsi una stanza immaginaria a notte tarda e, leggendo una pagina bianca, ascoltare l’angosciante necessario silenzio dei poeti.
Simone Cutri
On-line dal 27-10-2014 questa pagina
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