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Valsusa Report
Una campagna oramai internazionale mette a nudo il petto delle donne, una parità, negli Stati Uniti e in altre nazioni occidentali, scoraggiata dalle forze in divisa e spesso criminalizzata dalla gente comune. Avvocati e associazioni allineano, con sforzo, il raggiungimento della parità di genere. Questa lotta che a prima vista sembra inutile, così non è se si pensa, che la criminalizzazione del fenomeno liberatorio, ha causato diversi danni alle donne e tutt’ora nel 2015 ne sono ancora a rischio. Le denunce più reali sono di indecenza pubblica, disturbo della quiete, o comportamento lascivo. Phoenix Feeley, arrestata e incarcerata per essere in topless nel 2005 ha ottenuto, solo a discapito di una feroce guerra giudiziaria, nello stato di New York, un risarcimento di 29.000 dollari di danni dopo tre anni, nel 2008, riuscendo a dimostrare che comunque nello stato di New York, il topless femminile era legale già da 15 anni, una volontà repressiva l’aveva colpita.
In Europa il topless è tollerato, ma nuotare e prendere il sole sulle spiagge rimane ancora additato come mancanza di pudore e la pratica rimane controversa in molti luoghi privati, molte piscine pubbliche in Europa sono di proprietà di comuni o private, ed hanno il permesso di impostare i loro codici di abbigliamento, che nella maggior parte dei casi vieta il topless femminile arrivando addirittura in rari casi a prevedere il divieto di allattamento al seno, costringendo madri e figli ad appartarsi nei bagni o dove previsto in apposite stanze chiuse.
Nascono così proteste che in alcuni casi si sono strutturate in lotte sociali creando ad esempio un allattamento al seno o flash mob, riunendosi nella posizione in cui la denuncia è nata e nutrendo i loro bambini in risposta alla repressione. L’associazione “infermiere-in” ha così all’attivo molte iniziative che hanno poi condotto a delle scuse ufficiali di aziende, che hanno, in seguito, convenuto di formare i propri dipendenti sull’allattamento in pubblico o in azienda, allontanando le obiezioni della gente, i commenti negativi o le molestie.
Situazioni evidentemente al limite, se si pensa all’Africa, dove l’allattamento al seno in pubblico è di norma. I bambini sono comunemente portati sulla schiena della madre tramite una lunga stoffa che la cinge interamente e, con un gesto agevole, semplicemente spostati verso il seno nudo, alla vista, per l’alimentazione. In un sistema inverso dal nostro, quando un bambino viene visto piangere in pubblico, si presume che la donna con il bambino non sia la madre, perchè è normale vedere nutrire il proprio bambino in qualunque zona del territorio nazionale.
Fa specie se si pensa all’Australia dove nel febbraio del 2003, Kirstie Marshall, membro dell’Assemblea Legislativa Vittoriana, viene espulsa dal suo Parlamento per aver allattato al seno nudo il suo bambino. La motivazione, sulla base del fatto che il bambino era “uno straniero”, e non aveva il diritto di essere presente in Aula. Una motivazione evidentemente di convenienza per impedire “l’oltraggio del Parlamento”. Di conseguenza, dopo anni di dibattiti fu creata una sala speciale ad uso delle madri che allattano; nella civile Australia al confine l’allattamento e di fatto l’allontanamento dai lavori del Parlamento quale fosse una colpa nutrire il proprio figlio. Di fatto anche in Europa le ore di allattamento allontanano le madri dal posto di lavoro dipendente, una forzatura e un vincolo alle libertà personali.
Ora da più parti del mondo questa lotta di libertà femminile viene abbracciata dalle lotte di genere per la parità sessuale, un modo per iniziare a comprendere l’esclusione dai momenti giornalieri, per appunto, il solo fatto di avere due tette o la necessità di nutrire la prole. Una battaglia che iniziata nei primi anni 60 arriva quasi a nascondersi dagli eventi successivi. Ci si sente un po’ più liberi se in spiaggia si possono vedere dei topless, ma quando questa libertà si sposta ai giorni nostri, ecco che ricompare tale e quale agli anni 60. La censura dei social network in primis Facebook e Istagram impedisce le foto con seni femmini esibiti in libertà, che si tratti di spiaggia o feste liceali, vengono bannate o addirittura segnalate come porno.
FreeTheNipple è una campagna nata in Islanda. Dilagata negli altri paesi per denunciare la disparità con cui il genere femmnile viene trattato sui social network, dove i maschi sono liberi di togliersi la maglietta e fotografarsi, senza timore di vedere la loro foto cancellata, o peggio essere denunciati per pornografia o adescamento, incredibile ancor più negli anni 2000, dove ha nuovamente più libertà il genere maschile che può scambiare, in senso gay, più libertà sui social.
Un rischio per il genere femminile che volesse vivere l’indipendenza di genere, un insensato pudore, se si pensa anche alla terminologia scientifica sia maschile che femminile dove identifica seni e capezzoli per tutti uguali e identifica, si come pornografici, i soli organi genitali in quelli, delle parti basse. L’hashtag #freethenipple su Instagram è stato dirottato ad hardcore porno, e gli utenti vengono invitati a segnalare le irregolarità.
Adda Þóreyjardóttir Smáradóttir in un’Islanda prettamente femminista, iniziò più di un anno fa a promuovere la campagna di libertà del capezzolo (dalla traduzione letterale Free The Nipple) a scuola, e subito venne derisa dai suoi coetanei maschi tanto al punto da scatenare un suo compagno a postare una foto a petto nudo sul suo profilo social, proprio in segno di sfida. Sfida subito raccolta dalla diciassettenne islandese, Adda, pubblicò una foto del suo seno nudo su Twitter in segno di protesta. A causa del gesto, la ragazza divenne bersaglio di commenti misogini, ma da allora molte donne islandesi l’hanno imitata, in un atto di ribellione contro l’accostamento del corpo femminile al sesso.
I loro seni nudi sui social sono tantissimi, in internet ve ne è una serie incredibile da tutte le parti del mondo sotto l’hashtag #freethenipple, a tal punto, da coinvolgere anche molte personalità, alcune cantanti e attrici hanno già partecipato alla campagna attivamente.
La protesta è arrivata nel 2015 nel Parlamento Islandese: Björt Ólafsdóttir, una deputata, ha pubblicato la sua foto a capezzolo libero su Twitter.
Con una rapida ricerca nel mondo sono molte le lotte che si affacciano alla libertà del capezzolo, nel 2014, la regista Lina Esco ha lanciato il suo lungometraggio americano “Liberare il capezzolo”. Originariamente girato nel 2012, trovava l’opposizione nella sua proiezione dove la stampa ne impediva la fattiva diffusione. La Esco avviò così il movimento nel dicembre 2013 che la portò nella prima visione del 2014. In America, la Topfree, è un movimento politico in cerca dell’uguaglianza di genere e per il riconoscimento del diritto delle donne e delle ragazze di essere in topless in pubblico sulla stessa base con cui gli uomini e ragazzi sono autorizzati ad essere a torso nudo. Inoltre, nel Nord America, Topfree Equal Rights Association assiste le donne che sono state accusate di essere in topless, mentre GoTopless organizza manifestazioni per protestare contro l’atteggiamento legale e pubblico della disuguaglianza.
L’uguaglianza parte anche dal liberare il capezzolo in pubblico per lotta sociale e per nutrimento della prole, ma soprattutto per impedire ciclici motivi di repressione e costrizioni nel nome del niente.
Valsusa Report
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