Autore
Simone Cutri
M’immagino già le risposte dei saputelli, ma, tralascio altri disastri contemporanei del nostro inamabile Paese e restringo sensibilmente il campo: una delle sciagure più crudeli dell’Italia è l’immobilità. Passa inosservata, s’insinua tra le pieghe e le piaghe di dichiarazioni sempre uguali e vuote, programmi televisivi alla trecentomilesima edizione, vite di giovani che non riescono a crescere, ingabbiati nella ripetizione stagionale dell’essere sempre uguali a se stessi: a casa; al lavoro, Dio piacendo avendolo; nelle relazioni.
Uno dei sospiri di sollievo più profondi, quando stavo per lasciare l’Italia nell’anno d’oro che mi vide emigrare, era quello che dedicavo allo scampato pericolo: evitare di vivere l’ennesimo settembre: pieno di progetti e poi vuoto come sempre. Il fatto che tutto sempre rimanga uguale, che non ci siano novità, che, ad esempio, sullo schermo brillino sempre le stesse facce è indicativo di un cambiamento che non arriverà mai: la società non cambia e così la TV, che deve esserne lo specchio edulcorato per accontentarla e intascare i proventi della pubblicità, non cambia. Proprio la TV, che altresì potrebbe essere esempio traino per le beneamate masse che alla sera dopo aver lavorato tutto il giorno sono stanco mi metto sul divano e guardo la tele, non cambia. Dunque in televisione, non l’unica colpevole dell’immobilità per carità, non si vedono idee nuove, artisti nuovi, linguaggi inaspettati. Salvo qualche sperimentazione che va in onda in seconda o terza serata, per pochi intimi che poi s’impalmano su Twitter quasi esclusivamente tra loro. Ed il vero cambiamento esiste solo se condiviso dai più. Cose dette e stra-dette, che a doverle specificare m’annoiano di me.
Si pensi alla politica. Non 20 anni di berlusconismo hanno rovinato l’Italia, ma 60 di Democrazia Cristiana, semmai. E si va avanti a scaramucce che non hanno nulla di ideologico, ma che proteggono piccoli e grandi gruppi di potere: tutto qui, ormai è assodato. Mi rifiuto di ascoltare chi parla di crescita, stabilità, ripresa. Siamo fermi. Come nuoce ad una vita umana l’impressione d’essersi fermata: non agli anni felici dei giochi all’asilo o dei primi grandi veri amori al liceo, ma in una palude salmastra che ci priva della prospettiva. E senza prospettiva, noi generazioni pragmatiche senza Dio Patria e Dei, non si è disposti ad alcun sogno o, di contro, sacrifico.
Si badi che io, di indole destruens, di quelli che persino nei cartoni parteggiavano per il robot dei cattivi, tiferei piuttosto per un regredire, un prepotente ritorno all’ignoranza, alla non sofisticazione, alla villania, al Medioevo, al primitivismo. Purché non si resti fermi immobili. Conosco ragazzi che del lavoro, più di tutto e persino del basso stipendio ed eventuale sfruttamento, lamentano la mancanza di crescita, di acquisizione di nuovo sapere e capacità, nuove esperienze ed aperture mentali, viaggi e conoscenze, dialogo e disponibilità. Conosco coppie che continuano a 37 anni a riaccompagnarsi a casa presto perché domani si lavora e ancora non possiamo vivere insieme adesso cerchiamo casa però tanto lui va d’accordo con i miei e quindi si ferma a dormire da me il sabato. Conosco eterni studenti, artisti mai emergenti, inerti rivoluzionari: conosco me.
Chissà se questa lunga notte, in questa vecchia casa Italia, della quale nei mobili dei saloni impolverati noi giovani siamo i cristalli d’una collezione trascurata ed opaca, avrà con una nuova alba una fine. Chissà se questa lunga notte è così buia per sola colpa dell’economia, della congiuntura internazionale, dell’Occidente allo stremo delle forze oppure è un fatto culturale o di coraggio, più di tutto.
Ho amici di tutte le risme: felici, felici per finta, tristi per finta, disperati per davvero. Ma quando vado al nocciolo (quando non riduco il giudizio di una vita al solo stipendio lavoro casa di proprietà macchina foto delle vacanze quanto è figa la sua donna ma dai avrete un bambino!), quando penso all’unica effimera possibilità che abbiamo sul pianeta Terra, allora mi/ci vedo tutti uguali: tutti in un acquario, tutti meccanicamente a fare su e giù, nascondendoci a volte tra le anfore e le rovine dei piccoli castelli sottomarini, tutti spaventati, forse. Ogni tanto qualcuno torna in superficie: boccheggia, ricade. Di certo, stiamo pagando cara l’infanzia meravigliosa e fatata degli anni’80, ma non basta: qualcosa d’altro ci ha uccisi troppo presto e conservati malinconici dentro opachi cristalli pregiati.
Simone Cutri
On-line dal 03-11-2014 questa pagina
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