La lettera di Michele, che si è tolto la vita a 30 anni, pubblicata per volontà dei genitori, merita considerazione e qualche riflessione. Un gesto nato da un dolore privato, profondo e lacerante, è diventato l’atto di accusa di una generazione che si sente sempre più sola e abbandonata.
Lo scritto ci rivela una ragazzo in bilico tra i suoi sogni e una realtà della quale non riesce a sentirsi parte; una spirale di esclusioni lavorative, affettive. Una solitudine crescente diventata una bolla che imprigiona un mondo a senso unico fatto di rifiuti e negazioni.
Si può discutere a lungo quanto questo corrisponda al vero. Ma è impossibile negare che questo mondo globalizzato, quello che sino a oggi abbiamo conosciuto, è basato più su criteri di esclusione che di inclusione. Prescindendo dalla banalizzazione “è tutta colpa della società”, non possiamo più far finta che non esista un problema serio nel trattare le persone, e i giovani, come beni strumentali.
Troppe parole superficiali negano ai giovani la speranza di un futuro di cui far parte. Non a caso Michele, nella sua lettera, fa un riferimento esplicito al Ministro Poletti. Quante volte abbiamo ascoltato politici che accusano i “giovani” (figli degli altri) di essere poco intraprendenti, mentre si preoccupavano di sistemare i propri pargoli al sicuro. Le responsabilità di una gestione della politica ai minimi livelli storici, in termini di progettazione e immaginazione del futuro, è precisa e puntuale.
Una politica priva di tensione morale e senso di responsabilità verso il paese e le nuove generazioni. Ma anche di quelle non nuove. Anche qui sono i tanti (troppi) suicidi a testimoniare l’opera di isolamento e di esclusione del sistema economico e politico vigente. Ma non dimentichiamoci che il nostro sistema è pur sempre “democratico”; la classe politica viene eletta dai cittadini. Se vogliamo che le cose cambino, per noi, per i nostri figli, per i nostri nipoti, sarà bene iniziare a fare riflessioni accurate, prima di concedere la nostra fiducia politica basandoci sempre e solo sui ricordi di un passato ideologico che non esiste più.
Il suicidio è l’apice di un vuoto che circonda le nostre vite e talvolta ci aggredisce. Lo definiamo, romanticamente, disagio sociale. Ma è un vuoto nel quale molti cadono spinti da un sistema che ha cura dei privilegi di pochi e trascura quell’umanità che appartiene a tutti.
Michele ci lascia un messaggio importante: dobbiamo pretendere qualcosa di meglio, per tutti noi; dobbiamo smettere di credere che questo sia, panglossianamente, l’unico mondo possibile.
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