Autore
Franco Vitelli
L'heureuse surprise di questi anni viene dalle terre della Basilicata interna; qui, a San Mauro Forte, dove si favoleggia ancora del passaggio di Carlo Levi, è nato Alfonso Guida, una voce che, per il timbro di assoluta originalità, costituisce un punto fermo nella esperienza poetica italiana. C’è da stupirsi per la colpevole distrazione della grande editoria, che troverà certo modo di ricredersi, considerato che la produzione di Guida continua col sapore intatto della novità.
Alfonso è entrato nel Parnaso contemporaneo con le stimmate della sofferenza psichiatrica che lo ha assillato dalla tenera età (“Io sono stato / sparato alle spalle ed ero un bambino”) e reso singolare per forma poetica. La malattia è divenuta metafora dell’esistenza: persino il terremoto dell’Ottanta che sconvolse l’Irpinia e la Basilicata viene letto come la prosecuzione naturale del permanente sussulto interiore che domina l’umanità (“Il terremoto ci ha colti che si era / già tutti malati”). Osserva le conseguenze del tragico evento, ma la vista si trasforma in visione. La poesia è “scissione pura dentro la mente” e tale caratteristica si pone come specifico dell’intero Occidente; il processo di guarigione, coincidente con il percorso poetico, consiste in un viaggio a ritroso per definire “i fondamenti dell’essere” e ritornare conciliante e innamorato nel grembo materno.
Come dice l’autore medesimo, Torremozza è “il nome simbolico dell’ospedale psichiatrico della piccola città di Policoro”. E la notizia offre di per sé un’utile chiave di lettura; definisce la cornice e lo spazio entro cui la poesia agisce, ma non risolve la complessità strutturale dei versi (“Torremozza non fu che una matrice: / concezione e concepimento”). Voglio dire che sarebbe riduttivo pensare solo a un diario poetico del soggiorno in una casa di cura o dei suoi postumi, quando invece il discorso attiene più propriamente alla natura della poesia e al carattere della sua genesi. Così nei Diari del transito: “Parlo di un movimento tellurico che precede, un moto primitivo come il sogno o un fenomeno sub limine […] la parola sopraggiunge dopo, al momento della ricreazione del fenomeno […] dopo un lungo camminamento interno”. Di certo, Alfonso fa i conti con i “feudalesimi occhiuti di Psiche” con gli scacchi terribili e le resurrezioni (anche se dice che la parola rinascita manca nel suo vocabolario), ma è altrettanto evidente che il suo rappresenta un caso tipico della “vivacità creatrice di un male”, come ebbe a diagnosticare la sua psichiatra – a fronte del continuo scrivere e della vivacità dell’eloquio – e diede conferma il suo assistito (“Tiziana, là dove c’è il male erompe / l’alleluia dell’ispirazione”). Quella stessa Tiziana G. che poi gli propose il cammino psicanalitico durato otto anni, da cui nasce “l’irrichiesto compendio” di Poesie per Tiziana, un libro raro se non unico nel panorama letterario italiano, un piccolo capolavoro che fonda la sua forza poematica sull’interlocuzione continua con il personaggio maieutico, che corona le sue analisi “di pietà doviziose, di logaritmi dialettali”. È l’epos di una vicenda interiore che attraverso una lingua coinvolgente tiene stretto il lettore senza mai concedergli tregua. Non si prova fatica anche a fronte di concetti ardui, la difficoltà si scioglie nell’insorgere di passaggi lirici (“Abbiamo / letto cronache saccenti. Ma amiamo, / noi amiamo lo stabat mater dei grilli / perduti nell’erbetta devastata / dei trafori”) e lo stato doloroso viene redento dalla finalità ultima di “cercare in fondo al baratro una rosa”, il verso in cui si condensava la saggezza di una “donna malata e sola” ospite di Torremozza. Alfonso fa suo questo proposito che può essere messo a emblema di tutta la produzione poetica.
Poesie per Tiziana nella sua conformazione di enciclopedia in versi (sono alcune migliaia) non dico che esaurisce, ma porta a saturazione la tematica della psichiatria, orientando la poesia alla svolta radicale di Conversari che, nel suo titolo affabile, vuole evidenziare il tentativo di superare la vocazione all’isolamento (“Non ho mai appreso un mestiere sociale. Niente che potesse includere gli altri. Né fisicamente né interiormente”). Segna certamente un nuovo inizio in cui la componente psichiatrica occupa un ruolo residuale (appare piuttosto come un presupposto) e scendono in campo nuovi temi che concorrono a una certa eterogeneità. Tra questi, il paese, che è variamente presente nella raccolta trovando l’apice nella sezione Il paese d’inverno, dotata quasi di autonomia. Ed è qui che matura l’idea e il tratto complessivo della direzione poetica da approfondire nel prosieguo.
Possiamo dire che Conversari è il ponte per l’approdo alla raccolta I Penati, che ora si pubblica. Questo titolo risente di una perdurante incertezza esistenziale cui porre rimedio con l’invocazione di numi tutelari, assimilabili in qualche maniera ai Lari. Il che introduce un richiamo esplicito, anche per le significative concordanze testuali, a Remo Pagnanelli autore pure lui di una poesia in sezioni intitolata per l’appunto I Lari. Le visibili interferenze non bloccano il discorso su una questione di fonti, cioè su qualcosa di strettamente letterario, spostano invece l’attenzione sulla Weltanschauung del poeta alla ricerca di un comune sentire (“I libri che mi scelgo sono scritti da autori miei fratelli d’elezione”). Interpellato in proposito, più volte Alfonso ha dichiarato che la sua poesia “ha attinto ai poeti della diversità totale”, “agli autori nati negli anni Cinquanta e morti quasi tutti per loro stessa mano negli anni Ottanta”. Pagnanelli è tra questi, ma più vale segnalare Amelia Rosselli, Lorenzo Calogero e Dario Bellezza (fuori dagli estremi cronologici), Beppe Salvia e Nadia Campana. Alfonso ha superato la tentazione autodistruttiva proprio con la strenua fiducia nella poesia che è salvezza e pratica continua nel quotidiano; di qui la produzione torrenziale.
Il carattere totalitario dell’esperienza e il gesto necessario di non perdere i fili del rapporto con il passato portano alla celebrazione della preistoria e della poesia nel suo farsi; i mitici quaderni, di cui l’autore portava vanto negli anni della crescita, diventano oggetto di poesia. Quadernetti è il componimento del recupero memoriale di questi “testimoni in fila, dimenticati” che, con garbo e discrezione, non reclamano un loro ritorno in vita; eppure, quelle “voci sepolte” continuano a suscitare il fascino del richiamo, forse perché lì è sotterrato il senso del proprio destino. Si ricordi che nella poesia I Penati non casualmente “il vento […] smista in cantina le carte”, perché in quel luogo appartato e sotterraneo si accumula la storia individuale e collettiva, che le antiche divinità tenevano sotto tutela. Quelle testimonianze del passato appaiono tuttavia col marchio della rigidità, dell’esame spietato del proprio stato, “senza il filo di pietà che disseta / le api e i boschi”. E che, ancor più, non deve mancare nello scandaglio della condizione umana.
Si accennava prima al paese. Non si sbaglia a pensare che questo tema subentra per centralità alla psichiatria, creando nuove tensioni. Il rapporto che Alfonso intrattiene con S. Mauro è conflittuale (“Mi allontano da un paese estraneo e vado cercando. Mi sottometto a un dissesto”) e non senza patenti contraddizioni. Perché, si licet, leopardianamente forte è l’impulso ad abbandonare il borgo immaginando nuovi approdi, ma la fonte della poesia è lì e ogni tentativo alla fine rimane frustrato. “S. Mauro è un paese morto e il fatto che mi abbia dato di recente un premio di riconoscimento l’ho vissuto come un coronamento e congedo. Qui si è tutto completamente esaurito. Non c’è un esterno. Non siamo nati per parlare coi muri. Continuo a farlo ma vivo nell’attesa di Genzano come di un necessario spostamento” (Diari del transito) ovvero, citando la trascrizione in versi, “È un paese / disperato dal continuo insolcarsi / di migrazioni e transumanze”: qui non è il caso di rinvenire propensioni per una poesia civile e impegnata in analisi storiche, perché tutto trasmuta nell’angoscia esistenziale. Per converso: “senza colpe, persisto nel paese da cui vi scrivo” e “Il paese stretto alle / corde del circo è fedele e felice / dei suoi cipressi reticenti ai secoli”. Il circo rimanda all’infanzia come spazio-tempo del ritrovo beato e della pena per violazione d’innocenza; quell’immagine bellissima dei “cipressi reticenti ai secoli” suggerisce l’indifferenza allo scorrere del tempo, quasi un amore per l’arcaico. Ma è nella poesia di congedo che trova sintesi lo struggimento dell’amore e della distanza, dove non a caso è l’aggettivo ancora leopardiano “caro” a essere centrale nella funzione ossimorica: “caro il deserto” e “cara la storia che il sasso // segna tra i confini e la cecità / nel celebrare le distanze”. La presa di coscienza di una corrispondenza interrotta porta a una “solitudine quieta” che è preludio forse di un diverso destino.
Si provi a leggere Litterinsula, che è il componimento più complesso e significativo per definire lo spirito della raccolta. Vi si troverà l’antica questione del rapporto città-campagna declinata in termini nuovi; sfuma l’analisi sociale e sociologica che viene comunque riempita da immagini poetiche di rara bellezza. La città è vista in negativo con “corpi rifratti nel catrame”, affollamento e solitudine, dispersione e furbizia capitalistica delle formiche; la campagna è assenza, mancanza di storia quasi con riecheggiamento leviano. Non può, quindi, essere questa l’opzione da privilegiare, anche perché c’è da mettere nel conto la condizione alienante, “l’amara ombra / che prende la follia dei crocifissi chiusi a chiave nei muri, nelle nicchie”. Senonché, scatta il recupero di una bellezza che è dell’ambiente naturale (“Qui è una compagnia il vento con la voce / dei cani”; “Viaggiano, / tracciando un cerchio mirabile in cielo / i notturni e i rapaci, loro, geni / di una sapiente regalità”; “Qui vedrete / le rosse fiammate dei calicanti / e i Gesù torreggianti sui crepacci / benedire le querce e gli orti e l’erba / medica per i conigli”). È l’avvio di una svolta che potremmo definire ecologica, nel senso che, collegando paese e natura, si accede a una visione del creato sublimato nella purezza delle sue componenti; senza intralci storico-antropologici viene privilegiata la forza eversiva del paesaggio: “Quassù ore di silenzio e sterminio. Una / poiana ruota nella luce azzurra”; “In un glorioso andare al margine / di me, stamattina, nell’aria tersa, / l’azzurro del cielo è giunto fin qua. Si / è arrampicato come un gelsomino”. Non si tratta di potenza descrittiva, quanto piuttosto dell’incedere di una forte vena surreale. Il cambiamento è a largo spettro, investe nel complesso la raccolta e da essa fuoriesce. Il poeta, che pure risente di suggestioni religiose che lo spingono a mettere in esergo una citazione dai Salmi, anima l’episodio evangelico di una bellezza ‘laica’ e naturale, salvifica: “Voi avrete cuore di prendere luce / dai sicomori di questi vigneti / senza Zaccheo”.
Alfonso sembra voglia stigmatizzare la dicotomia tra l’uomo e il mondo esterno. Perché si realizzi il suo scioglimento l’uomo cede, forse abdica a favore del creato e le responsabilità vengono chiaramente individuate (“La Natura è lo Sfondo–Altro di una vita in cerca e in lotta col suo predatore”). È stata giustamente rilevata l’esattezza scientifica – quasi da trattato – con la quale vengono citati animali e piante che diventano linfa vitale della poesia. Le esigenze di stile che fanno leva sulla lingua certamente contano, tanto vero che la pressione sulla parola è da registrare per ogni aspetto della fenomenologia poetica. Ne dà conto l’autore specificando l’importanza che lo studio del vocabolario ha avuto nella costruzione di una lingua idonea: “Il mio riparo è stato il vocabolario. Sfogliavo ogni giorno e annotavo glosse”. Ma nel discorso qui avviato più conviene segnalare la funzionalità rispetto alla necessità di preservare lo stato di natura, il risvolto ecologico (“Hai bisogno della prigionia del nome perché la Cosa non venga travolta dall’uragano che sta dentro la dismisura dello spazio silenzioso. Hai un rapporto diretto con la Natura, tu stesso sei più Natura che Cultura. Qui nulla è soffocato dall’antropico come in città. È l’habitat di numerose specie di piante e di uccelli”). Ragion per cui l’attribuzione precisa del nome è il tramite di un rapporto più denso e cordiale (“Come sono pacificanti i nomi / delle piante: eliotropio, calicanto, / veronica, verbena, sena, angelica”). Nel nome di una pianta converge “la primavera della terra e l’azzurro del cielo”, rispecchiando un fenomeno di unità indistinta per penetrare il quale solo viene in soccorso la “parola che travalica”, quella cioè che non ha mera funzione denotativa.
Della passione per la botanica c’è traccia in Irpinia nel ritratto del “maestro giardiniere”, i cui insegnamenti venivano trasmessi in proficue e piacevoli passeggiate del sabato sera. Pietro Latronico, questo era il nome, coniugava l’amore per piante e poesia con predilezione della Ginestra, che sollecitava l’attenzione del poeta per “l’idea che una pianta così sgargiante si / potesse far strada nel deserto”. Il maestro rimase schiacciato da un sasso durante il terremoto, “mentre approntava un bouquet / di gladioli per uno sposalizio”, consegnandoci così una commovente storia di bellezza, amore e morte che rientra perfettamente nei canoni estetici del nostro autore.
È chiaro che il paesaggio rappresentato nei versi, quasi per spontaneo nascere, è quello del Sud, se non proprio quello del suo paese. Alfonso però rivendica legittimamente: “Non mi sono mai chiuso nel campanile del paese. Ho un senso dell’universalità”. Tutto dipende dalla formazione, che fa di questo poeta un personaggio particolare, restituito con icastico autoritratto in due righe: “Non ho una terra di appartenenza, anche se non mi sono mai mosso dalla Lucania, dove vivo. Ma il mio cuore non si è educato nelle scuole del meridione d’Italia, che pure ho frequentato”. La dissonanza è il lievito della poesia, il tratto specifico di una personalità che si muove a cavallo e mai prende posa per acquietarsi; se preferite, prevale il demone dell’insoddisfazione favorito dalla malattia e che, comunque, per Sinisgalli è il proprium antropologico dei lucani. Alfonso sostiene che le radici sono importanti e fondative per la poesia, ma prende le distanze dalle chiusure regionalistiche, essendo lo sguardo delle sue letture impregnato di Mitteleuropa e degli scrittori ‘maledetti’ di Francia. “Io ho letto Rimbaud e Verlaine che ero piccolo.[ …] in realtà la mia consapevolezza mi spinge a dirti che io provengo da un altro ragazzo, da Lautréamont. I Canti mi sono impressi a sangue e nessuno meglio del giovane Conte ha saputo dare un nome al mio male: Maldoror, Mal d’aurora. Lautréamont è l’unico francese da cui sento di discendere. E poi da Gide e Cocteau, la mia lascivia, la mia devastante terrestrità”. Il processo di superamento degli “anni bui” presuppone la creazione di un Doppio al quale addebitare l’accanimento su una ferita che viene tenuta viva e curata in un tormentato pendolo sentimentale e psicologico; ora, invece, la situazione consente con fiducia di guardare la “mente / scivolare, benevolente, senza / rancore”. Non senza però qualche dubbio sulla definitiva guarigione (“Quando ebbero fine le sue domande, / nessun nodo si sciolse, apparve solo / più chiaro”).
Nei Penati si trovano accenni enigmatici nei quali comunque traspare il significato dell’aurora come collettore di mali poi dispersi, secondo un liberatorio rituale magico, nelle campagne (“Strisciano radi saettoni nei muri / di un’estate disertata, tra i mali / che l’aurora accoglie prima di spargerli / nei campi d’avena”); e c’è la prova della sofferenza, già a vent’anni, del mal d’aurora. Tuttavia, il passo più complesso e chiarificatore (pur nell’oscurità dell’enunciato) risulta quello di Poesie per Tiziana: “Isidore Ducasse il tuo maldaurora / volge la fionda dell’aldilà sotto / l’architrave intonacato di un leggio / senza sacre scritture né cripte”. L’investitura è diretta, vengono esaminate le ripercussioni nei termini della poetica e del caso clinico. Il mal d’aurora è proprio il disturbo bipolare di cui il nostro soffre e per antonomasia il male di cui tutti i poeti soffrono per alterazione della vita interiore. Il male della soglia, di una condizione in limine tra dentro e fuori, proprio come la collocazione dell’aurora nel discrimine tra notte e giorno. Questa mancanza di appartenenza genera tormento e perciò il bisogno di superare la condizione: “la soluzione fu trovata e proposta dal mago del paradosso, dal padre di Alice, dalla sua intuizione geniale; non essere né di un paese né dell’altro, ma posizionarsi a cavallo del muro di separazione per conquistare uno sguardo completo, compiuto, la rotazione rivoltosa dello sguardo che vede ovunque, dall’oltre al qui”. Infatti, non è un caso che il personaggio di Alice venga evocato nei versi, nelle Poesie per Tiziana e anche nei Penati (“Qui molti / sono Alice, io stesso ho disposto il mantice / della difformità in vecchi quartieri”). Il tormento interiore volge verso lo spazio protetto e rischioso della poesia che tuttavia per rinascere non deve chiudersi nelle cripte e nelle sacre scritture, deve cioè avere un valore di profanazione del perbenismo e dell’educazione fedele a un dio veterotestamentario che colpisce e colpevolizza.
La poesia di Alfonso nasce e cresce vigorosamente su un misterioso processo di introiezione del reale che va a depositarsi in una coscienza ricca di “fessure”, provocando cortocircuiti espressivi per cui la lingua va oltre il senso dell’ordinario; “la visione prende corpo e la parola resta in un ritmo incantato di nenia remota, arcaica” che ne determina il fascino. Le fessure corrispondono alla “cucitura lasca dei versi e dei crepacci / che, a balzi, scorre, grigia / collisione di stelle”; e, nondimeno, colpisce il flusso continuo del discorso che trasferisce il lettore in una sospesa sintonia. Rendere narrativo ciò che dentro stride è questa la grande sfida in cui si cimenta il poeta dolce e triste di S. Mauro.
Franco Vitelli
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Titolo: I Penati
Autore: Alfonso Guida
Editore: Gattogrigio Editore
Data di Pubblicazione: novembre 2021
ISBN-13: 978-889-6314-28-9
Pagine: 62
Compra qui: Amazon
Franco Vitelli
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