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Contributo di Antonio Alei.
A fine anni ’50, quando la mattina ancora bambino mi svegliavo verso le 6, potevo sentire cantare il gallo, ragliare gli asini, rombare i motori dei pochi trattori che si recavano in campagna per accudire le terre.
Ognuno in paese, chi tanto chi poco, aveva un appezzamento di terreno coltivato a vite, oliveto, orto o seminativo.
Non si ricavavano redditi favolosi dalla campagna di allora, ma permettevano di vivere dignitosamente senza rincorrere il consumismo sfrenato degli anni successivi. Chi viveva dei prodotti della terra aveva quasi tutto il necessario per cibarsi a portata di mano: verdure, pollame, uova, carne di maiale, frutta, olio, ecc. Non era ottenuto certo gratis, ma con molta fatica e dedizione.
Oggi quel tipo di agricoltura di autosufficienza non è più praticabile per tutta una serie di motivi che non sto qui ad elencare, ma in sostanza perché superata dall’inesorabile “progresso”.
Il problema, come per tante altre cose in Italia, è stato che le persone e le istituzioni non si sono adeguate per tempo ai cambiamenti rapidi degli ultimi decenni.
Il contadino come lo faceva mio padre 40 anni fa è diventato anacronistico. Non si può pensare di stare sul mercato producendo grano duro su una superficie di 10-15 Ha. Nei primi anni ’80 un quintale di grano duro costava 43.000 lire di allora che se attualizzate ad oggi rappresentano una piccola fortuna. Con una buona annata agraria siamo riusciti ad incassare oltre 30 milioni di vecchie e preziose lire. E’ chiaro che questo è il ricavo lordo cui vanno tolte tutte le spese e la manodopera, ma era comunque una bella cifretta. Oggi lo stesso quintale ha un prezzo che varia fra 21 e 22 euro. Rapportato al valore d’acquisto del tempo è come se il costo fosse sceso sotto le 10.000 lire e non è più sostenibile.
Del resto basta fare un confronto fra queste due immagini
Per capire come la partita sia persa in partenza. Nulla vieta che si preservino specie autoctone geneticamente pregiate da vendere come materia prima per il Made in Italy (pasta e suoi derivati) di alta qualità organolettica, da praticarsi però in un ciclo economico chiuso di produzione-trasformazione-vendita; ma si tratta pur sempre di nicchie privilegiate. Questo vale altresì per gli altri prodotti cerealicoli, riso compreso.
Anche gli orti, i vigneti e gli oliveti a conduzione familiare versano oggi in gran parte in stato di abbandono sia perché i figli (come me) a torto o a ragione hanno preferito altre attività lavorative, sia perché la concorrenza estera e la produzione industrializzata su larga scala hanno reso insostenibili i nostri prodotti per gli alti costi interni di produzione.
E qui, come per tante altre attività economiche, è dove lo Stato, le corporazioni e i singoli hanno fallito; nel non aver compreso per tempo che i metodi produttivi e i piccoli appezzamenti non erano più al passo coi tempi e andavano organizzati in modo diverso, come illustrato nelle immagini seguenti.
Se si fossero accorpati i terreni (facendo opera di convincimento e incentivazione sui piccoli proprietari) e specializzate le produzioni agricole (ortaggi, frutteti, oliveti,vigneti, ecc. che sono il nostro fiore all’occhiello), tante superfici non sarebbero rimaste incolte o addirittura trasformate in inutili se non dannosi capannoni pseudo-industriali. Questo avrebbe richiesto non una visione miope, ma di lungo raggio e largo respiro, l’istituzione di scuole specialistiche, laboratori di ricerca, di organizzazioni e imprese a supporto della produzione e della lavorazione delle materie prime e di una rete commerciale ben ramificata sia all’interno che all’estero per la pubblicizzazione e vendita dei prodotti sui mercati mondiali.
Alcuni imprenditori si sono organizzati per tempo, ma sono oasi di benessere (spesso minacciate dalla criminalità locale) disseminate nel deserto del nulla. Qui andrebbe aperta anche una parentesi sulle nostre organizzazioni per la penetrazione sui mercati internazionali quale l’ICE (Istituto Commercio Estero) che fino ad oggi non hanno di certo brillato per competenza, professionalità e intraprendenza.
Comunque, con una agricoltura al passo coi tempi avremmo senz’altro avuto maggior occupazione, maggior ricchezza e meno problemi di messa in sicurezza del territorio; invece buona parte delle nostre aziende di punta e delle nostre industrie agro-alimentari sono state inopinatamente chiuse o svendute a soggetti esteri e multinazionali che oggi ne traggono quei profitti non indifferenti che noi, molto stolidamente, non siamo riusciti a cogliere per miopia congenita e opportunismo impregnato di incapacità pur di mantenere in piedi una serie infinita di clientele e di “mafie” che garantissero il voto di scambio sulla pelle del merito, dell’efficienza e dell’onestà. E questo vale per quasi tutti gli altri settori dell’economia.
Più il Paese si impoverisce sia materialmente che intellettualmente, meno risorse ha disponibili per una pur timida ripresa. Di sprechi e di sciali ne sono stati fatti una montagna in tutti i settori dell’economia, dell’istruzione e della ricerca, per non parlare dei privilegi, prebende, vitalizi, pensioni d’oro, liquidazioni di platino elargite ad incapaci e collusi, in grado di provocare danni immensi con la loro spocchia e inettitudine, e dei costi fuori di tutti i parametri internazionali delle opere pubbliche e della loro effettiva utilità e durata.
Il presente è solo il primo di una serie di articoli che mi auguro di riuscire a redigere sullo “Stato della Nazione” (parafrasando l’annuale bollettino sullo “Stato dell’Unione” made in USA) nei suoi diversi aspetti socio-economici.
L'articolo Economia e Agricoltura 2.0 sembra essere il primo su TG Valle Susa.
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On-line dal 27-05-2017 questa pagina
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