Lady From Shanghai, è il titolo del nuovo album dei PERE UBU, che esce quattro anni dopo “Long Live Pere Ubu“, e viene presentato come il loro disco più elettronico. La nevrosi minimal/sintetica di “Thanks” rivela a pieno questa inedita dimensione, una dimensione poco indagata anche in passato se non in forma minore. In mezzo alla consueta fioritura di disturbi e rumori, prendono consistenza sillabazioni oscure, battiti robotici come in “Feuksley Ma’am“, “The Hearing” e “Mary Had a Little Lamb”, sulle quali si innestano declinazioni di una malinconia atavica (“Musicians Are Scum”) e lame di synth che squarciano penombre minacciose (“Another One (Oh Maybellene)”). A questo punto, la danza moderna non può fare a meno di mostrarsi in piena luce per quello che è e per quello che, in fondo, è sempre stata: la trasfigurazione di un cabaret dell’assurdo, come suggeriscono, senza troppe astrazioni, gli oltre sette minuti in modalità ipnotico-androide di “Mandy”. Un disco, insomma, che fotografa una band ancora desiderosa di dire la sua, tra dissertazioni mai troppo scontate, e l’immancabile Captain Beefherat che fa una visita di cortesia regalando misteriose odissee spaziali in “Lampshade Man” e “And Then Nothing Happened”. E mentre le tracce scivolano via e il disco va consumandosi lentamente, percepisci l’animo di David Thomas, in tutta la sua voracità e capacità (unica) di azzannare al cuore.
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