Autore
Davide Amerio
di Davide Amerio.
L’Università è tornata, inaspettatamente al centro dell’attenzione in questa campagna elettorale. Presenza effimera, in verità, animata dal desiderio (questo sì, populista) di accattivarsi le simpatie dei giovani studenti universitari, proponendo l’abbattimento, o l’eliminazione, delle tasse.
Un tentativo di rendere l’Università più abbordabile per ogni classe sociale? Un risorgimento sessantottino in favore dei proletari? Un desiderio di diffondere maggiormente la cultura e il sapere? Niente di tutto questo, ma una banale manovra elettoralistica.
In Inghilterra, ci racconta Francescomaria Tedesco sul Fatto Quotidiano, si affronta un tema analogo, sempre però sull’onda della propaganda politica. Una “pensata” geniale, vorrebbe rendere differenti i livelli di tassazione tra le facoltà umanistiche e le scienze umane. Essendo le seconde più favorevoli a procurare lavoro e reddito, esse dovrebbero subire una maggior tassazione rispetto alle prime. In questa ipotesi si assume che le facoltà scientifiche comportino costi più onerosi rispetto a quelle umanistiche; questo giustificherebbe un maggiore tassazione per accedere ai relativi corsi.
A questo principio viene opposto un’argomentazione semplice: le facoltà economiche, che rientrano in quelle delle scienze umane, non comportano i costi di altre facoltà ingegneristiche o di ambito medico. Il dibattito è in corso, ma la conclusione di questa “visione”, secondo il giornalista, è sintetizzabile con: “[…] secondo questa proposta Tory, i poveri faranno i filosofi e i ricchi gli ingegneri“.
Il dibattito sulle facoltà “utili”, ai fini lavorativi, e quelle che non lo sarebbero, tiene banco, sottotraccia, da un po’ di tempo, all’interno della sconclusionata visione della scuola così come intesa dai nostri governi. Di questo argomento ci siamo già occupati.
Merita rimarcare il punto, con l’ausilio di un bel saggio di Nuccio Ordine(*), “L’utilità dell’inutile“, pubblicato nel 2013 e che mantiene viva tutta la sua attualità.
Il punto messo a fuoco dall’autore è la dimostrazione di come tutta l’impostazione della cultura, e quindi anche dello studio, è subordinata al mercato (così detto libero), quindi alla logica del profitto. Solo quello che può essere finalizzato alla produzione di un reddito (o di un profitto), viene considerato “utile”. Tutto il resto, e quindi ciò che attiene ad una funzione più speculativa e di ricerca “pura”, viene classificato come “inutile”.
La storia del “sapere” umano, della scienza, della tecnologia, dimostra una narrazione ben differente. Come introduce il saggio:
Esistono saperi fine a se stessi che – proprio per la loro natura gratuita e disinteressata, lontana da ogni vincolo pratico e commerciale – possono avere un ruolo fondamentale nella coltivazione dello spirito e della crescita civile e culturale dell’umanità. All’interno di questo contesto, considero utile tutto ciò che ci aiuta a diventare migliori
e ancora
[…] la coscienza della differenza tra una scienza puramente speculativa e disinteressata e una scienza applicata era ampiamente diffusa tra gli antichi […]
[…] la vitale importanza di quei valori che non si possono pesare e misurare con strumenti tarati per valutare la quantitas e non la qualitas.
[…] rivendicare il carattere fondamentale di quegli investimenti che producono ritorni non immediati e, sopratutto, non monetizzabili.
Il sapere si pone di per sé come un ostacolo al delirio d’onnipotenza del denaro e dell’utilitarismo.
Tutto il saggio è permeato di esempi storici che impongono, con assoluta evidenza, la ricchezza, morale e civile, della cultura; nonché gli importanti benefici apportati alla società.
Una riflessione chiave aiuta a comprendere la falsità della lettura prettamente utilitaristica del sapere. Proprio la scienza, come documenta Nuccio Ordine, porta esempi eccellenti. Alcuni grandi scoperte scientifiche, che hanno generato successivamente dei prodotti commerciali, hanno origine da un lungo processo di ricerca puramente speculativa estranea alla logica del profitto.
I grandi scienziati della storia non hanno condotto, o finalizzato, le proprie ricerche, seguendo la logica dell’utilitarismo. Si pensi ai moderni Albert Einstein, Stephen Hawking, Antonio Damasio: il primo ha gettato le fondamenta della fisica moderna, il secondo quelle dell’astrofisica, e il terzo quelle della moderna neurologia.
Quanti di costoro hanno iniziato i propri studi pensando al profitto? Nessuno. E i loro studi si sono valsi delle ricerche di altri scienziati. Tutti animati da un’unico motore: la curiosità e il desiderio di arricchire la conoscenza umana.
Nuovi settori della scienza nascono sulle fondamenta di altre discipline: così per la neuroeconomia (neurologia, economia, psicologia), come per l’Intelligenza Artificiale o del Machine Learning (matematica, robotica, neurologia, etc etc); così pure per l’economia che si arricchisce nelle proprie analisi della sociologia, della matematica e persino dell’antropologia.
Il punto, per quanto riguardo lo studio e la cultura è un altro: nessuno sa, o può sapere, da quale branchia della conoscenza umana arriveranno le nuove scoperte (umane e scientifiche) che faranno progredire l’umanità. Per questo motivo piegare il sapere all’utilitarismo è un grave errore.
Figlio della miopia utilitaristica, il sistema liberista adotta, da tempo – sopra tutto nei paesi più “liberisti”, – la logica del debito sulle spalle degli studenti. Come riportato sul FQ, il problema del debito finanziario conseguito con gli studi, che affligge molto l’America, comporta per gli studenti inglesi, che si affacciano al mondo del lavoro, un debito tra le 40 e le 50.000 sterline.
Si conferma pertanto l’obiettivo liberista di piegare le persone, all’interno della logica del mercato, a colpi di debito. Ciò rende i soggetti più vulnerabili, come ben sappiamo, molto più inclini ad accettare qualsivoglia lavoro e mediocri, quando non pessime, condizioni economiche. Si inizia quindi con l’Università.
Nei decenni della guerra fredda, era una vanto per i paesi del blocco occidentale menzionare la possibilità per gli studenti universitari di scegliersi, in piena e totale libertà, la facoltà che più si addiceva alle proprie aspirazioni e interessi. Si rinfacciava al blocco sovietico di non concedere uguale libertà ai propri cittadini: il tipo di lavoro che ciascuno avrebbe svolto nella vita, sarebbe stato determinato dal governo centrale.
Caduto il muro di Berlino. Proclamata l’unicità del sistema liberista occidentale come unica forma di governo possibile: quale differenza c’è oggi tra quel sistema illiberale sovietico e questo sistema – falsamente- liberista, succube di un mercato astratto, che riduce gli spazi della libera scelta e li piega alla logica del profitto e dell’utilitarismo?
A mio parere, nessuna. Entrambi i sistemi vertono a piegare il singolo alla volontà di qualcun altro. C’è di che pensarci su.
(D.A. 21.02.18)
(*) Professore ordinario di Letteratura Italiana, nell’Università della Calabria. Ha pubblicato numerosi saggi, tra i quali, nel 2013 “L’utilità dell’inutile – Manifesto” per i tipi della Bompiani.
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Davide Amerio
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