Autore
Alice Arduino
In occasione della Giornata della Memoria, Talco Web vuole ricordare la testimonianza di due partigiani che si sono distinti per coraggio e valore contro i fascisti a Torino: Giovanni Accomasso e Rosellina.
Sono state realizzate due interviste e riportate fedelmente le loro storie.
IL PARTIGIANO GIOVANNI ACCOMASSO
90 anni, partigiano, nome di battaglia Giacu. Ho parlato con lui per due ore cercando di capire la sua storia e la sua militanza. La sua è una delle tante avventure che ho voluto raccontare per ricordare ed esaltare la memoria di un uomo che ha fatto parte della resistenza.
Giovanni proviene da una famiglia povera. Durante gli anni della guerra, abitava in una casa di due stanze (camera e cucina) insieme alla sua famiglia. La carenza di cibo lo porta da bambino a frequentare la Chiesa, grazie alla presenza del prete che dopo la comunione, dava da mangiare ai ragazzi. Giovanni lo dice in tono scherzoso, lui diventerà un ateo convinto e questa parentesi è stata data dalla necessità di avere un piatto caldo ma non ha influito sulla sua formazione.
Siamo nella primavera del ‘44, Giovanni ha 18 anni e inizia a sentire lo spirito e il movimento antifascista da alcuni abitanti del quartiere. Ha un animo ribelle e non ha nessuna intenzione di unirsi al movimento RSI, la Repubblica Sociale italiana, guidata da Mussolini.
A quell’età lavorava in un panificio e ricorda il suo primo incontro diretto con un fascista. Erano le 2 del pomeriggio e Giovanni esce dal lavoro dopo aver finito un turno di notte di 12 ore. Incontra un corteo fascista, viene fermato e invitato ad unirsi a loro. Ma Giacu è stanco, ha appena finito di lavorare e si rifiuta, sostenendo di dover andare a dormire. Il corteo avanza, c’è confusione la fortuna lo aiuta e viene lasciato andare. Ma la paura di essere costretto a fare qualcosa che non condivide esiste. Ricorda i bombardamenti su Torino, la gente che scappava nei prati e le prime bestemmie lanciate contro Mussolini. La situazione italiana peggiora, il movimento fascista è ormai radicato, vivere a Torino è sempre più difficile e per questo, anche grazie alle sue conoscenze, decide di lasciare Torino e dirigersi verso le montagne, unendosi alla resistenza.
Lasciare la città non è facile. Sulla strada verso Venaria vi sono posti di blocco e le guardie fermano chiunque decida di allontanarsi. Per raggiungere Varisella pensa ad un piano: usare un tandem, insieme a Carla Levi, ebrea e amica di famiglia. La scelta della bici è strategica: quando un uomo e una donna venivano fermati dalle guardie potevano sostenere di essere una coppia in gita per un pic nic e passare inosservati.
L’idea funziona e riescono a fuggire.
I controlli dei soldati per impedire di arruolarsi con la resistenza sono serrati. Qualche vicino aderente all'ideologia fascista, segnala la mancanza di Giovanni da casa e le guardie si dirigono all'appartamento dei genitori per monitorare la situazione. Il padre nega di sapere dove si trova il figlio e per alcuni giorni l'abitazione rimane sotto sorveglianza dai soldati in borghese che sperano di catturare Giovanni. Ma Giacu è ormai lontano e ha raggiunto le montagne.
Nonostante l'età avanzata le sue memorie sono ancora lucide. Ricorda il primo giorno di guardia in torretta. Giacu non aveva fatto il militare, era giovane e inesperto e non sapeva neanche usare un’arma. Nonostante questo, viene messo di guardia a controllare la valle con un fucile e delle bombe. Nella sua permanenza in montagna incontrerà un amico del padre, Piero Luzzato detto Pierino il Lungo per la sua statura e insieme si uniranno al reggimento in bassa valle a Viù, con la 87 brigata.
Frequentare le formazioni partigiane lo inducono ad iscriversi al partito comunista aderendo con una tessera. Questo gesto fu un atto di coraggio se si pensa che durante il regime, chiunque non avesse la tessera del partito fascista era considerato un traditore. In questo modo Giucu, segna la sua fedeltà come combattente antifascista.
C’è un dettaglio non da poco che va ricordato nella storia dei partigiani. Non erano soldati ma persone comuni che scelsero di dedicarsi alla resistenza, operai, lavoratori dipendenti, contadini, artigiani, commercianti tecnici e professionisti. Non erano una forza militare organizzata, ma piccoli gruppi rudimentali, che non rappresentavano una vera minaccia per il regime. Il loro impegno era attivo sul fronte ideologico e la scelta di rifugiarsi nelle montagne era dettata dal sottrarsi al partito fascista. La lotta partigiana, prima di tutto è consapevolezza e ritrovo di molte persone attorno ad una idea. È una crescita politica e umana che induce al confronto. Molte persone che si unirono alla resistenza non possedevano un titolo di studio, erano povere e non avevano una preparazione culturale appropriata a capire ciò che stava accadendo. Il ritrovo nelle valli diventa quindi, un motivo di conoscenza. Se nel marzo del ‘43 iniziarono i primi scioperi delle fabbriche contro il fascismo a Torino, la svolta della resistenza arriva dopo l’8 settembre quando le autorità tedesche catturarono i soldati italiani rastrellati e deportati nei territori del Terzo Reich, quelli che verranno chiamati IMI, Internati Militari Italiani, circa 600mila persone. Dopo il disarmo, soldati e ufficiali vennero posti davanti alla scelta di continuare a combattere nelle file della RSI o in caso contrario, essere inviati nei campi di detenzione in Germania. Alcuni accettarono di combattere al fianco della Germania o della RSI per poi arrivare in Italia, disertare e arruolarsi con la resistenza.
Giovanni ricorda come la militanza era complicata: erano isolati e i metodi di comunicazione molto scarsi. Chi aveva la possibilità riusciva a connettersi e ascoltare “Radio Londra”, una stazione che trasmetteva le notizie e gli aggiornamenti sulla guerra. Ma la dittatura serrava le comunicazioni e spesso i partigiani vivevano nel caos o nell’incertezza di cosa fare e di come muoversi. Ad aiutarli vi erano le staffette partigiane, donne e civili che portavano notizie e spesso li salvavano dai rastrellamenti nazisti.
Il primo incontro chiamato “battesimo del fuoco” Giacu lo ricorda bene: i fascisti avanzano e iniziano i rastrellamenti nelle montagne per catturare coloro che avevano deciso di opporsi al regime. Siamo nell’autunno del ‘44 e nelle valle vi sono circa 600 partigiani armati. Gli operai dell’aereonautica fornirono ben 3 mitragliatrici da combattimento per tenere testa ai soldati, ma i partigiani sono in minoranza e inizia la ritirata. Chiedo a Giovanni, la classica domanda che spesso molti giovani gli fanno nelle scuole: Quanti fascisti hai ucciso? “Non lo so risponde. In quel momento non pensavo ad uccidere, ma a scappare, a salvare la pelle. Sparavo senza guardare, per mettermi in salvo”. Mi cita la frase di Bertolt Brecht “Felice il paese che non ha bisogno di eroi”.
Siamo nell'autunno del 1944 e i militanti fuggiaschi si dirigono verso la Francia per cercare rifugio. Ma la situazione si complica. I francesi odiano gli italiani perché nel 1939 la Francia era allo sfascio, invasa dalla Germania e Mussolini ne approfittò per attaccarla. I partigiani italiani non vengono accolti bene e al primo blocco gli viene ordinato di lasciare le armi. A comandare il plutone italiano vi è il tenente Priamo Saramoglia che conosce il francese e riesce a fare da tramite spiegando la loro situazione. Stanno scappando, non sono invasori e chiedono di unirsi al movimento partigiano francese per unire le forze. A Grenoble incontrano gli alpini italiani e per un breve periodo condividono la lotta.
Gli alleati americani avanzano e nel 1945 Giacu, insieme al suo battaglione ritorna in Italia affiancato da altri francesi per gli ultimi atti di resistenza. A guerra conclusa lavorerà nella polizia ferroviaria per 5 anni grazie alla convenzione dei combattenti partigiani per poi andarsene e approdare alla Fira, Fabbrica Italiana Radiatori Automobili.
Chiedo a Giovanni qual’è stato il ruolo delle donne nella guerra. Lui ha molto rispetto e da risalto alla figura femminile, sostiene che il loro contributo fu fondamentale perché il loro ruolo di staffetta permetteva di essere informati e di comunicare. “Rischiavano la pelle più di noi” sostiene, assicurando la vita delle Brigate con cibo, indumenti, cure mediche, raccolta di denaro, ospitalità e propaganda, formando quelli che vennero definiti “Gruppi di difesa della donna”.
Giovanni mi ricorda un fatto triste quando dopo la liberazione del 25 aprile del ‘45 alle donne venne vietata la sfilata in quanto non riconosciute come combattenti. Al contrario, come racconta Beppe Fenoglio nel suo libro “23 giorni della città di Alba” alcune donne sfilarono in pantaloni e non in gonna, (era questo sovente il loro abbigliamento durante la resistenza), tra i commenti maschilisti dei cittadini che assistevano alla sfilata e dicevano: “Ahi povera Italia!”.
ROSELLINA - STORIA DI UNA PARTIGIANA
91 anni circa, partigiana. Si presenta alla sede Anpi della circoscrizione 4, Sezione Martiri del Martinetto, una signora distinta, tranquilla, con due occhi grandi e azzurri. Era chiamata Rosellina e per privacy ha preferito non pubblicare il suo nome per intero. Non ci tiene alla notorietà, nonostante abbia fatto molti incontri nelle scuole e sia conosciuta. Si dichiara una partigiana, ma la sua storia è quella di una resistente, come tanti altri, che non vuole essere ricordata per nome, ma per quello che ha vissuto e fatto sul campo. Vuole solo che la sua testimonianza sia tramandata per ricordare gli anni del fascismo in Italia.
All’età di 15 anni inizia a lavorare in Fiat a Torino. Qui entra in contatto con un gruppo di militanti e antifascisti. Siamo nel 1943 quando la resistenza italiana inizia a mobilitarsi con volantini e riunioni segrete. Ricorda con dolore la fame, la mancanza di cibo, i bambini che lavoravano nelle filande all’età di 8 anni. C’era povertà ovunque.
Abitava in Piazza Sabotino e insieme a 14 persone, dopo il lavoro, si riunivano in incontri segreti creando manifesti antifascisti attraverso le indicazioni che arrivavano dalla zona del Canavese, dalla Divisione Garibaldi.
Ai tempi non vi era la fotocopiatrice, ma il ciclostile un sistema di stampa meccanico, con una manovella, utilizzato per produrre volantini. Li attaccavano nelle case aperte, al muro, tramite una colla fatta in casa composta da farina, acqua e aceto. Non vi erano mezzi e tutto veniva svolto nella più totale segretezza lontano dagli occhi e orecchie del partito fascista.
Ogni mattina i soldati grattavano via i manifesti e ogni giorno loro ne producevano altri attaccandoli sui muri.
Ha 17 anni inizia la sua resistenza. Alcuni doppiogiochisti, al servizio del regime, si infiltrano nel gruppo segreto, per poi fare irruzione e bloccarli. Due resistenti scappano, ma vengono subito fucilati. Rosellina non tenta la fuga e viene arrestata. “Meno male “dice. “Se oggi sono ancora viva è stato perché sono rimasta immobile”. Inizialmente viene trattenuta per 3 giorni a Casa Littoria, sede locale del partito fascista, oggi meglio conosciuto come Palazzo Campana in via Carlo Alberto 10. I gerarchi perquisiscono la sua casa di Piazza Sabotino in cerca di prove, ma fortunatamente la borsa in tela contenente i manifesti non viene scoperta. Interrogano la madre e il fratello, che negano tutto e sostengono di essere ignari della situazione.
Durante l’interrogatorio Rosellina ricorda un dialogo avuto con un soldato: “Parla, altrimenti ti ammazzo. Questa pistola è ancora fumante”. E lei risponde “Fai il tuo dovere”. Se queste parole risuonano come un atto di coraggio soprattutto per le giovani generazioni, sono per Rosellina un ricordo incosciente dettato dalla sua giovane età.
La fortuna è ancora una volta dalla sua parte, essendo una ragazzina non viene torturata, ma ricorda con sofferenza altri partigiani come lei che al contrario, subirono violenze da parte dei soldati con lo scopo di estorcere informazioni sulla resistenza.
Dopo 3 giorni viene trasferita in prigione presso le Carceri “Le Nuove” di Torino. Qui rimarrà per 4 mesi, da Novembre a Marzo. Ricorda il freddo della cella e il poco cibo. Nella sua detenzione le viene proibito di avere contatti con amici e conoscenti, ma ringrazia sua madre che ogni giorno, le portava da mangiare. “In prigione ci davano da mangiare la carne” dice sorridendo in modo sarcastico. “Formiche e scarafaggi”.
“Noi partigiani non volevamo la guerra” dice Rosellina. “Noi facevamo la resistenza e scappavamo sulle montagne perché era l’unica cosa possibile”.
Tra i ricordi ci tiene a sottolineare un fatto importante. Il regime chiedeva di “donare” la fede d’oro per la patria. Non vi erano alternative altrimenti venivi additata come appestata e ribelle. Questo è il prezzo della dittatura. Solo con il tempo si scoprirà che nella cittadina di Dongo, al confine con la Svizzera venivano fuse le fedi per creare lingotti d’oro. Circa 8 miliardi di lire dell’epoca, raccolti da Mussolini per il “fondo riservato” alla Repubblica Sociale Italiana (RSI).
Dopo 4 mesi viene rilasciata. Con il tempo scoprirà che fu uno scambio di prigionieri: lei, partigiana, in cambio di una contessa di stampo fascista che comprò la sua libertà cedendo i suoi averi.
Rimane a Torino vicino alla madre malata e inizia a fare volontariato come infermiera presso l’ospedale Maria Vittoria. Qui si occupa dei feriti, colpiti dai cecchini fino a quando nel 1945 la guerra finisce.
Il suo racconto è chiaro, lucido. Ricorda bene il passato e a tratti si ferma nel suo racconto alternando momenti di pausa e riflessione. Ai giovani di oggi vuole dire di non dimenticare, di non farsi fare il “lavaggio” del cervello dai politici, di pensare e vivere essendo sempre coscienti.
Una grande donna che ha vissuto la guerra, la prigione, la fame e la sofferenza e che oggi, con tanta umiltà ha ricordato la sua vita.
Grazie Rosellina.
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Alice Arduino
On-line dal 29-01-2017 questa pagina
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