Negli ultimi anni, come saprete, sono proliferate le scuole di scrittura creativa: non c’è città che non ne abbia una prestigiosa (questa frase non ha alcun fondamento) e non c’è biblioteca del più piccolo paesino di provincia a non tenere laboratori, presìdi, circoli, lezioni, discussioni, dibattiti, apologie, panegirici e stage.
Per moltissimo tempo, senza alcuna autorità né autorevolezza, e munito soltanto di invidia per chi passando di là riusciva ad arrivare alla grande editoria, sono stato il più acerrimo nemico di suddette istituzioni. Innanzitutto non capivo il concetto di ‘scuola di scrittura creativa’, ovvero non mi era chiaro come si potesse insegnare a creare. Pensavo che la creazione dipendesse da idee e ispirazione, soprattutto, e non comprendevo come questo fosse trasmettibile da un’altra persona, pur più preparata (?) di noi. Poi ovviamente c’è la tecnica; ma per quest’ultima, ingenuamente, credevo si dovesse soltanto aver ben imparato la grammatica italiana, almeno fino alla quinta elementare, e leggere tanto, più di tutto i classici ed i grandi libri: in modo da arrivare infine ad avere un proprio stile e poter giungere, nel migliore dei casi, fino a licenze poetiche e ad un credibile ‘truffare la lingua’.
Inoltre, ero e sono molto scettico sui titolari insegnanti di questi laboratori. Voglio dire, se Proust o Mann o Calvino vi danno un consiglio sulla vostra scrittura o vi bocciano indicandovi la via dell’ippica o dell’agricoltura, è un conto; ma se a guidarvi nella vostra crescita letteraria sono 4 scalzacani che si sono auto-pubblicati due romanzi che hanno fatto furore soltanto tra i parenti, non state a darci troppo peso. In verità, tra gli zelanti maestri di questi workshop, ci sono anche persone brave e preparatissime; solo un po’ antipatiche e supponenti, ai miei languidi occhi, per essersi messi sul pulpito dell’insegnare una cosa così personale. Però, la bolletta arriva per tutti, amen.
Avevo la certezza che quindi si imparassero degli schemi da seguire, dei momenti da indovinare, dei personaggi standardizzati da mettere in campo, dei colpi di scena da dosare. E non capivo dunque cosa tutto questo avesse a che fare con la libera creatività, l’arte, la scrittura vera.
Credevo poi che le suddette scuole di scrittura avessero una sorta di accordo con le grandi case editrici: tu mi pubblichi qualcuno dei miei valenti alunni – potenziali clienti si iscrivono dicendo che chi passa da me arriva a pubblicare – il giro dei guadagni continua per tutti – e così via.
Non vedevo uscire, dalle suddette, mai qualcuno che mi sconvolgesse. Credevo infatti che un vero scrittore - devastato ribelle lupo solitario spirito libero decadente incallito - non avrebbe mai potuto accettare, per perorare la sua causa letteraria e stilistica, di sedere tra i banchi di una scuola, accettare i consigli di un signor nessuno e patire il confronto con banali testi di chi fosse lì per hobby.
Ma. C’è un grande “MA”. MA poi mi sono ricreduto. È stato subito dopo aver letto Viaggio al termine della notte, di Céline. Nella sola prima metà del romanzo, all’incirca, si parla di Guerra Mondiale, esperienza nelle Colonie francesi, soggiorno negli Stati Uniti con tanto di occupazione alla Ford di Detroit e massicce esperienze di catena di montaggio taylorista; e poi Parigi, prostitute, malaffare, compagnie di giro e chi più ne ha più ne metta. Dunque ho capito: cosa è mai successo nella nostra vita? A me, perlomeno, nulla di paragonabile. Ed ecco l’utilità delle scuole di scrittura: tentare di insegnarci a dire qualcosa che non abbiamo mai vissuto, in quest’epoca piattissima, in questa Italia miserabile, in questo Occidente omologato e politicamente corretto.
Tuttavia, per chi non avesse i 18 mila euro della quota trimestrale per frequentare le suddette, propongo un decalogo che dovrebbe bastare a far di voi un grande scrittore:
1 Aver fatto grammatica italiana almeno fino alla quinta elementare.
2 Leggere il più possibile (meglio se romanzi dal 1850 al 1960).
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