Autore
Manfredo Pavoni
Gran parte del plurisecolare percorso che ha compiuto, il Brasile lo ha fatto sulle spalle della sua popolazione africana: il lavoro degli schiavi ha permesso di creare enormi profitti all’epoca della colonia e poi dell’impero, in un periodo durato più di tre secoli, fino all’abolizione della schiavitù avvenuta, ultima tra le nazioni americane, nel 1888.
Dei milioni di africani portati in catene nelle Americhe, grosso modo il 40% era destinato alle piantagioni e alle miniere brasiliane. E come altrove, gli schiavi e i loro discendenti si ribellarono alla degradazione sistematica sperimentata a cominciare dal momento della loro cattura.
Le fughe e le ribellioni erano una minaccia costante che i padroni tentavano di ostacolare con ogni mezzo, combattendo battaglie sanguinose con grande dispendio di mezzi e di uomini.
Per arginare la “peste della libertà” lo stato schiavista utilizzava eserciti prezzolati – spesso composti per la gran parte da indios e negri che sfuggivano così alla loro stessa condizione di schiavi – e mute di cani. Le pene inflitte a chi veniva catturato erano le più terribili: torture, mutilazioni, marchi a fuoco, e spesso la morte. Ma le ribellioni solitarie o di gruppo continuavano inarrestabili.
Si ha notizia dei grandi gruppi di fuggiaschi guerrieri: in tutti gli Stati schiavisti furono numerosi e la letteratura che li riguarda ne racconta come di comunità di ribelli efferati dediti al brigantaggio e alla liberazione degli schiavi, ma che al loro interno vivevano in armonia e democrazia. Si narra che erano capitanati da combattenti di grande valore, dotati di poteri straordinari acquisiti attraverso i riti del condomblè. Si ricorda in particolare l’epopea del Quilombo dos Palmares, all’inizio del XVII secolo una comunità composta da schiavi fuggiti, Indios ma anche bianchi che non accettavano il regime schiavista e che cercarono alternative sociali ed economiche vivendo in una comunità libera orizzontale che diventò una cittadina di migliaia di abitanti nell’interno del Brasile dove il lavoro era volontario e il raccolto distribuito in modo comunitario tra tutti. Una vera repubblica libera nel Brasile imperiale che resistette circa cento anni a tutti i tentativi di annientarla militarmente e soffocarla economicamente.
Dopo Palmares migliaia di Quilombo sorsero nel Brasile della schiavitù. Molti di loro si erano rifugiati nella foresta per sfuggire al regime schiavista e avevano fondato le prime comunità libere di ex schiavi del continente latinoamericano, che non volevano più sottostare a un regime che li sfruttava come macchine e gli negava lo status di esseri umani.
Le comunità Quilombola continuarono a formarsi, anche dopo l’abolizione nel 1890 quando gli afro discendenti vennero espulsi dalle terre che avevano lavorato per secoli e costretti a ingrossare le file delle favelas intorno alle grandi città brasiliane.
Nel 2003 grazie ad un decreto varato dal governo di sinistra del presidente Lula le comunità afro discendenti avevano per la prima volta la possibilità di auto riconoscersi comunità Quilombola e di ottenere il diritto alla terra, anche se questa apparteneva ad un fazendeiro, che in seguito al riconoscimento e alla demarcazione del territorio compiuta dal governo, poteva essere espropriato in favore della comunità Quilombola.
Questo decreto si basa sulla Convenzione 169 del 1989 formulata dalla Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIT) e adottata dal Brasile nel 2002.
La Convnzione si propone di proteggere i diritti dei popoli indigeni e tradizionali garantendo uguaglianza di fronte ad altri soggetti nazionali come stati o regioni, con l’obiettivo di garantire lo sviluppo economico sociale e culturale tradizionale di quei popoli e di quelle comunità tradizionali.
Una parte fondamentale della Convenzione si occupa delle terre e del territorio occupato da queste “comunità tradizionali”. L’art. 14 dichiara che:
“AI POPOLI CHE SI AUTO IDENTIFICANO COMUNITÀ TRADIZIONALI SI RICONOSCE IL DIRITTO ALLA PROPRIETÀ SULLA TERRA CHE OCCUPANO.”
Oggi in Brasile sono circa 5000 le comunità che si sono autodefinite comunità Quilombola e questa realtà coinvolge circa tre milioni di persone in gran parte contadini e pescatori .
Tuttavia nonostante le leggi nazionali ed internazionali, un apparato poliziesco gestito dalla destra, dalle poche famiglie proprietarie di migliaia di ettari di terra e dalla lobby dell’agroindustria, le comunità devono affrontare conflitti rischi di deportazione, ricorsi giudiziari che durano anni e emarginazione.
Uno dei conflitti simbolo di questa lotta dei discendenti di schiavi è rappresentato dalla comunità Quilombola di Rio Macaco stato di Bahia dove un antica comunità di afro discendenti è circondata dalla base navale della marina militare costruita negli anni ’70 durante i governi militari, che ha costruito intorno al Quilombo un muro per rendere difficile l’accesso e anche l’uscita dalla comunità come fosse un territorio sotto sequestro militare, e che oggi pretende di deportare la comunità nella vicina città di Salvador, impedendo agli abitanti di poter vivere insieme pescare e coltivare le loro terre.
Manfredo Pavoni
On-line dal 23-02-2016 questa pagina
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