Autore
Roberto R. Corsi
Molte sono le immagini – più o meno autorevoli e pittoresche; spesso, se non sempre, tendenti al tragico – impiegate per dare concretezza al procedimento e alle problematiche della traduzione. Dalla più immediata “per scostamento sillabico”, quella del tradurre/tradire, alla coperta corta, al letto di Procuste… fino alla Steineriana “invasione” (che diventa “trasfigurazione”, quando il risultato supera per qualità l’originale).
Cosa muove dunque tale “continuo schianto”? A fondamento di un quaderno di traduzioni – quello forse più noto, opera di Eugenio Montale, è stato recentissimamente ripubblicato – ci sono molte componenti. L’amore per ciò che si legge, anzitutto. Del pari, l’esigenza di assimilarlo con un possesso forte, quello dello studio approfondito. Infine, il desiderio di trasmetterlo nel modo più vicino al proprio sentire. È qui che si instaura la consapevolezza più profonda e davvero drammatica: nel tragitto da una lingua all’altra, non tutto il carico può essere salvato.
Per enumerare i valori in gioco desidero per un attimo capovolgere la prospettiva, dal traduttore al poeta.
Il 2022 è anno proustiano; tra le tante gemme che possiamo rinvenire chez Swann, sta la famosa immagine de «les bons poètes que la tyrannie de la rime force à trouver leurs plus grandes beautés». Soppesando le parole di Proust possiamo avvertire la carica tensiva di quella “tirannia”; verso cui lo scrittore sembra quasi avere un presentimento di detronizzazione; ma alla quale tributa e tiene ancorato il giudizio di valore. Possiamo anche estendere ermeneuticamente il novero dei despoti, aggiungendo alla rima almeno la metrica e la accentazione; tutto ciò in rapporto a una scelta lessicale e figurale, come pure a un tessuto narrativo e/o gnomico (cioè a una morale), che invece dovrebbero muoversi all’interno di una gabbia più o meno solida.
Come sappiamo, oggi questa gabbia è spalancata. Ciò, lungi da ingenerare passatismi, dovrebbe indurci a perequare tutte le grandezze elencate qui sopra, collocandole paritariamente in uno strumentario che i poeti hanno a disposizione; utensili da impiegare come desiderato. Tanto più che la fuga dalla gabbia non è totale. Alcune voci giovani della poesia di oggi concepiscono entro forme rigorose le proprie intuizioni immaginifiche: i primi nomi che mi vengono in mente sono Alessandro Madeddu e Marco Simonelli, nell’ultima prova poematica del quale compare anche la gabbia dei Sonnets shakespeariani – una scelta dei quali troviamo in questo volume.
Torniamo sul fronte della traduzione. Proprio una esigenza di perequazione mi sembra alla base de L’officina metrica di Sergio Pasquandrea. Alla cui ratio trovo particolarmente confacente un monito del critico Cleanth Brooks (il passaggio, che ripeto con parole mie, si trova nella raccolta di saggi The Well Wrought Urn): maneggiando la poesia, non considerare mai la struttura come il mero involucro del contenuto, poiché maltrattare o snobbare l’una reca automaticamente pregiudizio alla integrità dell’altro.
Ebbene: soprattutto quando s’incontra la grande poesia del passato, l’attrazione gravitazionale del contenuto – il fascino di immagini, similitudini, massime senza tempo; la loro capacità di parlarci, forza motrice che ancora Proust ha saputo così bene eternare in un passo de Il tempo ritrovato – ha portato e porta assai spesso a tirare la coperta della traduzione per il lembo della massima rispondenza letterale, a scapito del metro e, più ancora, della rima o dell’assonanza.
Il caso paradigmatico mi sembra quello di Emily Dickinson, le cui trasposizioni in Italiano, almeno nelle versioni cui da qui ho immediato accesso, appaiono quasi sempre sottopesare se non ignorare, in nome della fedeltà ai preziosi contenuti, la rima/assonanza sui versi pari; meno, ma non di rado, si prescinde persino dal restituire l’andamento giambico.
In questo senso la traduzione della grande di Amherst è per me la sfida più affascinante che Sergio Pasquandrea intraprende, preoccupandosi di mantenere assonanza e ritmo saldamente accanto alla davvero miracolosa sostanza poetica.
Facendomi forza sul fatto che l’ultima lirica dickinsoniana qui presentata è anche la mia pièce de musique preferita tra i Twelve Poems of Emily Dickinson per voce e pianoforte di Aaron Copland (1950), mi viene da pensare che Pasquandrea ci proponga con questo libro una offerta di ricalibratura a favore di quanto nella poesia costituisce la componente musicale. Di qui il titolo di queste mie considerazioni, che imita quello dell’opera Bachiana BWV1079.
Per dirla altrimenti con Verlaine, anche lui afferente a questa officina: «De la musique avant toute chose». In particolare, la gabbia di rima/assonanza mi sembra il basso continuo, la stella polare su cui Pasquandrea punta deciso il sestante. Parallelamente, e sempre con logica musicale, il Nostro incentra la stragrande maggioranza delle versioni su settenario / endecasillabo / alessandrino; ma sa all’occorrenza evaderne armonicamente nella prima proposta catulliana (carme 29, ove il trimetro giambico sfocia nell’endecasillabo sdrucciolo), come pure in Goethe (novenari e quinari); risolvendo poi caso per caso gli spinosi passaggi in cui pentametri (cfr. la scelta metrica complessiva in Marziale, V, 34) o rigore giambico (la secca musicalità di Hardy, con quello splendido cluster in cui senti echeggiare gli spari: «I shot at him as he at me») fanno uno stress test al bagaglio tonico che la lingua recipiente può fornire.
Un plauso particolare merita, tra le versioni in dialetto sanseverese che concludono il quaderno, quella originale “traduzione intermedia” che fa passare l’episodio infernale di Paolo e Francesca per il tramite di Carlo Porta. Essa, oltre a costituire un fondato invito a riscoprire il poeta milanese, mostra, col suo esempio autorevole, come l’attenzione verso naturalezza e musicalità non si traduca mai in pedissequa filologia, andando anzi a cercare saltus particolari – non solo linguistici ma anche metrici, avendo agilmente trasposto Porta (e dunque, di conserva, Pasquandrea) la terzina incatenata dantesca in ottava toscana.
Posso essere lapidario sulle mie impressioni qualitative. Lungo tutto il volume, da Orazio fino appunto alle traduzioni dialettali, mi suscitano autentica e uniforme ammirazione i risultati del lavoro di Sergio Pasquandrea e il considerevole roster delle lingue padroneggiate (alle quali posso testimoniare che va aggiunto almeno il portoghese). Ai lettori spetta il compito di asseverare questo mio appagamento.
Desidero piuttosto, forse invito domino, terminare queste considerazioni con un accenno al fatto che, accanto al Pasquandrea traduttore, vive un Pasquandrea pregevolissimo poeta il quale, nel suo disporsi che utilizza all’occorrenza cornici classiche (la ekphrasis e la palinodia, per citarne solo due), ama esprimersi prevalentemente in verso libero e sciolto. Vedo in ciò una riprova che lo studio e la consapevolezza della complessità poetica, in ognuna delle sue grandezze, non determina affatto scelte monocordi; al contrario, attua la pienezza del «dwell[ing] in possibility» letterario — la sicurezza nel posizionare, in infinite configurazioni, le sensibilissime leve dell’espressione, creatrice come traduttrice. Per chiudere il cerchio di questa nota con una similitudine solo apparentemente stravagante: ad Anton Webern si devono sia – come compositore – l’applicazione più rigorosa e concentrata della dodecafonia, sia – come “traduttore” – la più famosa, devota orchestrazione del magniloquente e ovviamente tonalissimo Ricercar a 6 dalla Offerta musicale di Bach.
Vittoria Apuana, 24.I.2022
Roberto R. Corsi
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Titolo: L’officina metrica
Autore: Sergio Pasquandrea
Editore: Gattogrigio Editore
Data di Pubblicazione: luglio 2022
ISBN-13: 978-889-6314-31-9
Pagine: 108
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Roberto R. Corsi
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