Un tempo c’erano la Corrida di Corrado, le fiere di paese, il circo. Oggi ribattezzano tali manifestazioni di folclore umano con nomi inglesi e danno loro un ritmo, grazie al montaggio forsennato; una colonna sonora che indirizzi gli stati d’animo; e una patina di bellezza, grazie alla qualità delle immagini, scenografie, effetti speciali.
La formula, sempre uguale a se stessa, non è di difficile comprensione e viene rispettata meticolosamente dagli autori: si scelgono tre o quattro giudici che siano spigliati e già amati dal più variegato pubblico; e, soprattutto, si scelgono concorrenti che rispettino le seguenti caratteristiche: qualcuno bravissimo e già affermato in realtà non televisive; qualcuno bravissimo che tenta di rientrare nello show-biz dalla finestra, ostentando un’umiltà passeggera, tentando l’ultima carta pur di non rassegnarsi a lavorare; qualcuno che sta nel mezzo delle capacità che avrebbe chiunque se solo si impegnasse in quello che fa, che supera il primo turno e poi viene massacrato durante le semifinali, uscendo a testa alta, accompagnato da un discorsetto dei giudici sul non mollare, crederci, combattere (questi sono i soggetti dei quali mio nonno avrebbe dichiarato: “ce n’è uno per famiglia che sa cantare-ballare-vattelapesca così”); infine ci sono due categorie di casi umani: l’una è quella dei fenomeni da baraccone, nati per essere derisi, centellinati dalla produzione per spezzare il ritmo del programma e per far vedere che tutti, davvero tutti, avrebbero potuto regolarmente partecipare allo show; l’altra è quella dei casi umani per davvero, ragazzi con disabilità o gravi difficoltà o storie familiari drammatiche alle spalle che, dopo un inizio stentato e adorno di diffidenze e imbarazzi, stupiscono pubblico e giudici, commuovono, escono tra gli applausi in piedi e a scena aperta (per intenderci, sono quei personaggi che poi la produzione usa per avere riscontri sul web, per farli diventare virali e trainare gli spettatori a seguire il prossimo appuntamento).
Sin qui, nulla di male. Sono meccanismi assodati e tuttavia abbastanza trasparenti. Il risultato, soprattutto quando un format viene preso e rivitalizzato da Sky, è un buon prodotto: godibile, intrattenente, leggero, ben fatto. Io, ad esempio, ne seguo ampi stralci. Certo mi annoio dopo dieci minuti, ma questo è un problema mio: dopo 10 minuti mi annoio di me stesso, di un mio amico, di una ragazza, di una partita, di un viaggio in aereo, ecc…
Veniamo al punto. Se sommiamo tutte le trasmissioni che prevedono l’esibizione di un talento e se le sommiamo a tutte le edizioni che ci sono state negli anni e se le sommiamo a tutte le versioni che hanno luogo nel mondo, scopriamo che praticamente tutti gli esseri umani hanno in dote un talento. E questo era riscontrabile anche nella vita di tutti i giorni. Persino nel microcosmo di un gruppo di amici si trova quello che fa bene le imitazioni, l’altro che sa impennare col motorino, uno che fa il verso della tortora, l’altro che suona la chitarra, uno che scorreggia a comando, l’altro che si tocca il naso col labbro inferiore.
Quindi mi viene ingenuamente da pensare: se tutti hanno talento, nessuno ha talento.
Io preferisco il genio al talento. Non solo perché io sono un genio (frase scritta solo per irritare il lettore che sarà giustificato a pensare “ma chi cazzo crede di essere sto mezzo fallito schifoso?”), ma anche perché il genio non è allenabile, non è coltivabile, non è ereditabile, non è figlio di scuole speciali, ricchezze, studi particolari, non è nemmeno un dono della natura: è un lampo.
E come tale, lo può avere, per un istante, chiunque: il più stupido compagno che avevamo in classe alle elementari, il vecchio illetterato di paese, un mendicante col cartello scritto con errori d’ortografia per fare più pena, un animale, Berlusconi.
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