Autore
Simone Cutri
Questa del sottotitolo era la frase in inglese che albergava sugli specchietti retrovisori della piccola utilitaria giapponese di mia madre: “gli oggetti nello specchio sono più vicini di quanto appaiano”. Chissenefrega: è la prima reazione di noi navigati umani al volante. E così la si butta, senza ulteriori analisi, nel calderone delle baggianate che coprono eventuali e risibili impicci legali per le multinazionali: il fumo uccide, il caffè scotta, i giocattoli sono animati a scopo pubblicitario. Invece no, poi riprende quota: la si toglie dalla realtà fisica, la si dissocia da una berlina che fa per superarci o da un palo da evitare nell’atto di fare manovra e la si trasporta su piano metaforico: viste in uno specchio, guardate da fuori, restituite, le cose sono più vicine. Nel senso di nitide, chiare, comprensibili. Potrebbe essere, saltando alcuni passaggi ma rimanendo nell’ambito e nel macro-campo, il “Ricordare una cosa significa vederla per la prima volta” molto ben scritto da Cesare Pavese.
Fateci caso: anche il parrucchiere ci guarda nello specchio e non direttamente sulla testa. Argomentazioni tirate per i capelli (è il caso di dirlo) che poi si rivelano più vere ed efficaci di quelle ragionate. Dunque uscire dalla soggettiva che guida il nostro pensiero ed il nostro giudizio, e guardarsi da fuori, lasciarsi restituire dal riflesso di uno specchio. Così come un estraneo ci giudica più lucidamente di un amico e spesso noi siamo più autentici con chi non conosciamo. Che è poi la benedizione del grande artista: sempre a nudo d’innanzi ad una massa di individui che non conosce. Si badi: ho detto “grande”, ho detto “artista”.
Per tanto, è fondamentale per un essere umano, perlomeno in qualche fase della sua vita, andare lontano: per ri-conoscersi, ri-definire, ri-sintonizzare, ri-stabilire valori ed amori. Anche quello per il nostro disgraziato Paese: da lontano, appunto, con calma ma senza distacco; con lucidità, ora che sdegno e rabbia sono leniti dal non seguire la televisione nostrana, i dibattiti, i volti lombrosianamente scon-volti dei nostri rovinosi politici; con un respiro profondo, non circondati dal clima esasperante di depressione, scoramento, decadenza, sciatteria.
All’estero, specie oltre-oceano o soprattutto in un altro emisfero, si è lontani, soli, estranei, in posizione di svantaggio, spesso a disagio con una lingua studiata in modo inadeguato: facile solo finché si tratta di riempire ridicoli libri di esercizi; difficilissima se non ci si limita a chiacchierare nei locali o a dire voglio questo e quello; ma si cerca di esprimere un concetto, una sfumatura, la bellezza di un significante, una filosofia o lo stato d’animo reale di noi giovani italiani d’in-successo. Si badi: qui si dovrà raccontare ormai un’emigrazione in stile inizi del ‘900, non il viaggio incredibile di un turista euforico né il soggiorno dei figli di papà che conoscono un Sushi nel Village dove si mangia da Dio né l’avventura romanzata dei sé-dicenti artisti mezzi-scemi e mezzi-hypster che affollano le gallerie di Chelsea o le strade di Williamsburg. Con un vantaggio: l’eventuale paracadute economico della famiglia d’origine. Con uno svantaggio: la mano d’opera non serve più quasi ovunque, o c’è chi fa qualsiasi cosa meglio di noi ed a costi minori.
Bisognerebbe obbligare i giovani ad una sorta di servizio di leva pacifico, mandarli un anno fuori di casa, lontano: per vivere, imparare, cavarsela, immalinconirsi, mancarsi, fare bagaglio, rimpiangere. Gli uomini delle generazioni precedenti spesso hanno il servizio militare lontano da casa come unica fucina di aneddoti e bizzarri racconti. Oltre a sentirsi ancora legati ai commilitoni, ricordare cognomi, telefonare per gli auguri ai compleanni e durante le feste comandate. Sempre ci vorrebbe, nella vita umana, una costrizione a passare certe notti insonni, a dover stare svegli e soli con se stessi: come turni di guardia al freddo, come noia infinita, come snervante attesa, come scorta di possibili malinconie.
Tuttavia, rientrando nei binari del discorso, concludo suggerendo a tutti quanti di andarsene lontano. Non appena scesi 4 gradini dell’aeroplano che ci ha portato altrove, ci si accorge che l’Italia è il posto più bello del mondo, ma, ahimè, non il migliore: come quelle ragazzine stupende e sbagliate che abbiamo un tempo tanto amato. Eppure possiamo ancora fare qualcosa per salvare il nostro Paese dall’oblio che ingoia le cose che l’hanno reso unico. Il guaio, e non il bello, è che dipende da noi. Saremmo il popolo migliore al mondo, se non fossimo italiani.
Simone Cutri
On-line dal 29-09-2014 questa pagina
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