Autore
Davide Amerio
Iniziamo con questo pezzo la collaborazione con Jimmie Moglia, un Piemontese emigrato in America 35 anni fa. Ingegnere, scrittore, studioso, produttore; si occupa in particolare della didattica e ha scritto due libri con lo scopo di far apprendere con piacere Shakespeare e Dante.
Abbiamo il piacere di ospitarlo sul nostro sito. Iniziamo la collaborazione con un libro che ci ha messo a disposizione e che pubblicheremo in parti. Quella di oggi è una introduzione con la prima parte della intervista fattagli dal sito sakeitalia.it che introduce il personaggio e i contenuti del libro. Buona lettura.
Un assaggio per voi di una biografia e di un percorso culturale sempre sospeso fra la dimensione umanistica e la necessità di organizzare e razionalizzare lo slancio spirituale disponendolo tecnicamente e rendendolo in questo modo meglio comprensibile e fruibile. Nato a Torino, si trasferisce presto a Genova dove frequenta prima il liceo D’Oria e poi la facoltà di Ingegneria. Nello stesso tempo sviluppa la passione per la musica. E’ proprio questa passione che lo conduce negli Stati Uniti. “Coltivavo due interessi indipendenti.” Racconta Jimmie “Avevo già girato abbastanza il mondo, perché da studente (raddoppiando i tempi di laurea), facevo il chitarrista e mi ero appassionato a un certo sound del genere country and western. Quindi avevo visitato, stile menestrello state of the art (o quasi), parecchi paesi. Ero curioso di scoprire la sorgente storica ed autoctona del sound che mi aveva interessato. Per quel che vale, anche la mia tesi di laurea (peraltro niente di sconvolgente), era sulle tecniche, apparecchiature e tecnologia per l’analisi e l’adattamento del sound attraverso i vari confini linguistici. L’altro interesse era, appunto, verificare quanto era vero e quanto no sul mito americano.”. Negli Stati Uniti Jimmie ha conosciuto anche il successo commerciale, dirigendo per vent’anni una azienda specializzata nella produzione di un dispositivo per reinchiostrare le cartucce delle stampanti. In questo periodo la passione per le materie umanistiche non è venuta meno, con particolare attenzione alle per la tecniche di trasmissione del sapere, passione cui si è potuto dedicare completamente al momento del pensionamento dopo vent’anni di direzione aziendale. La disponibilità di tempo gli ha permesso di applicare il suo “metodo mnemonico” (basato sull’abbinamento di immagini e testi in “quadretti mnemonici”) alla letteratura. Nel 2001 è uscitoYour daily Shakespeare (citazioni di Shakespeare correlate a 10.000 situazioni di vita quotidiana), cui è seguito, nel 2012 Il nostro Dante quotidiano, 3.500 modi di cavarsela con Dante. Per circa 6 anni, in uno con la stesura del libro su Shakespeare, ha prodotto a Portland una serie televisiva mensile intitolata “Shakespeare’s Views on the News”. Al momento, si occupa della produzione di una serie televisiva intitolata Historical Sketches (26-28 minuti per episodio) e ha appena completato e messo on line l’ultimo (sesto) episodio sulla storia dell’Ucraina. I nostri lettori troveranno la stessa filosofia di sintesi fra cultura e divertimento in “USA e Getta”, un libro che offerto spunto per una interessante conversazione con l’autore.
Saker Italia: Perché questa contro storia dell’America, a prima vista un tema così diverso dagli altri tuoi lavori? Perché ora?
Jimmie Moglia: Le mie ricerche hanno sullo sfondo una genuina passione per l’educazione – o meglio per i metodi di studio, che – ritengo fermamente – dovrebbero far parte del soggetto studiato. In contrasto al considerare il metodo come un soggetto separato da quello che si studia. Il tutto con lo scopo di trasformare studio e lettura in un divertimento intelligente.
Quindi quanto scrivo e’ correlato a una domanda che cerco di pormi, piu’ o meno, come segue: “… cosa potrebbe essere d’interesse (o utile) a chi – magari gia’ conoscendo abbastanza il soggetto – volesse saperne di più?” Detto cosi’ sembra una banalità. Chiunque si mette a scrivere, anche una lettera, ha in fondo la stessa intenzione. Ma per un lavoro più lungo, il concetto di unire l’interesse all’ utilità (per l’eventuale lettore) costituisce la mia ispirazione, sia pure con la “i” minuscola. Interesse, utilità, ma anche un po’ di divertimento.
Con Shakespeare e Dante, ho cercato di accomunare utilità a una forma di soddisfazione-divertimento – quella che si prova quando ci si imbatte (o ancora meglio), quando ci esprimiamo proprio con le parole che fanno al caso. Del resto, Shakespeare stesso fa osservare, a un protagonista di “Taming of the Shrew”, che “No profit grows where is no pleasure taken.”
E sulla stessa vena, lavoro da parecchio tempo a un dizionario basato sulle espressioni di Samuel Johnson – maestro indiscusso della lingua inglese e autore del primo dizionario, nel ‘700. Il suo è un inglese a metà tra una marcia militare e un salotto con Mozart al clavicembalo, ma proprio in questo contrasto sta la sua originalità. Scoperta certo non mia. Tant’e’ vero che quando andava in giro per Londra aveva un codazzo di aficionados che lo seguivano con matita e calepino, per trascrivere immediatamente le sue frasi killers sui vari soggetti.
S.I. Gli Stati Uniti hanno costruito un sistema imperiale. Come tutti i sistemi quello statunitense implica delle rinunce: le cose vengono fatte in un modo e non in un altro. E tuttavia il sistema produce degli effetti: una rete di relazioni culturali e commerciali, un supporto tecnologico, l’apertura di nuovi canali di comunicazione, la costituzione di una classe dirigente globale. Il paragone che viene in mente è ovviamente quello dell’Impero Romano, ma si potrebbe pensare anche a quello Mongolo, e a tutti gli altri grandi sistemi integrati creati dall’uomo nella storia. Non è già questo fattore un elemento positivo, che giustifica i costi morali della costruzione dell’impero?
J.M. Tutti i sistemi, come dici, comportano delle rinunce e sono d’accordo che il sistema produce degli effetti anche positivi. Ma probabilmente discuteremmo a lungo su un punto per me cruciale. I Mongoli, i Tartari etc. conquistavano per conquistare, non in nome di un principio politico-etico-morale. Tant’e’ vero (parlo a grosso-modo naturalmente), che alla fine si sono integrati con i popoli conquistati e, piu’ o meno, hanno smesso di conquistare.
Se leggo bene, la tua tesi è che ogni progresso ha un costo, che costituisce, di fatto, la fattura del progresso. Qui dissento, ma so anche che per dissentire, in modo non becero, dovrei abusare del tuo tempo.
S.I. Nel tuo libro è frequente la sottolineatura della distanza fra i principi affermati in teoria e la prassi di governo nella storia degli stati uniti. Questo è un tratto comune a tutte le società umane (la classe dirigente tenta di legittimarsi proiettando una rappresentazione più nobile dei propri principi di quanto non sia la realtà): penso alla famosa costituzione sovietica del 1938, una messe di fantastiche affermazioni teoriche prodotte nel cuore delle purghe staliniane. Quindi si tratta di una torsione normale, o nel caso degli stati uniti questa ipocrisia ha qualcosa di particolare?
J.M. Per la contro storia degli USA, ritengo che (statisticamente), pochi si rendano conto di quanto il mito preponderi sulla realtà. Sono d’accordo che la differenza tra teoria e pratica è universale, ma – a mio avviso – c’è una differenza tra le differenze.
Esempio – quando la Costituzione del dopoguerra dice che la repubblica italiana e’ fondata sul lavoro, esprime un principio, semplice quanto so vuole, ma a cui non si può obiettare.
In contrasto, la dichiarazione di indipendenza americana stabilisce che “gli uomini sono creati tutti eguali”, meno i negri, gli indiani, le donne e i poveri. Quindi si parte da una verità negata nel momento in cui viene espressa. Il che ha causato la civiltà, che da quelle parole ebbe origine, ad arrampicarsi letteralmente sugli specchi per far finta che fosse vero quello dicevano ma che contemporaneamente negavano.
In breve, una consapevolezza della storia degli Stati Uniti, diversa dal mito. può spiegare (dico spiegare e non risolvere), i giganteschi paradossi (e crimini contro l’umanità), della politica americana – del resto articolati spesso nel blog a cui contribuiamo. Proprio perché ci cade a pennello, cito Samuel Johnson dal dizionario a cui sto lavorando, “… The tribe is likewise very numerous of those who regulate their lives, by the measure of other men’s virtues; who lull their own remorse with the remembrance of crimes more atrocious than their own, and seem to believe that they are not bad while another can be found worse…”
Lo so che non è questo che intendi, ma un trattamento adeguato della “particolarità dell’ipocrisia”, eccederebbe i limiti che posso imporre allo spazio a nostra disposizione.
S.I.: Tuttavia le potenze emergenti (Russia, Cina, India…) sono molto diverse dagli Stati Uniti a cui contendono il primato o non ci troviamo piuttosto ad una lotta per l’egemonia fra animali dagli istinti e dalla natura ugualmente predatoria? In conclusione: esiste davvero una alternativa?
J.M. Ai posteri l’ardua sentenza, ma qualcuno a un certo punto dovrà pur pensarci. “If there’s a will there’s a way.” Tanto per proprio non dir niente, mi vengono in mente gli esperimenti del progetto Mondragon in Spagna. Ma è soggetto che richiede una passione, sia per il la teoria che per la pratica e il dettaglio, da rendere vuota di significato qualunque generalizzazione.
S.I. Ho notato che nel libro non si parla approfonditamente di Roosevelt. Nell’immaginario occidentale questo presidente rappresenta forse una eccezione: una certa tendenza al keynesianesimo, la volontà di cooperare con i sovietici. Altri, invece, sottolineano che è proprio Roosevelt a portare gli Stati Uniti all’egemonia mondiale e dibattono sulla famosa questione della conoscenza, da parte dell’intelligence USA, dell’attacco a Pearl Harbour. Che idea ti sei fatto di questa personalità?
Da quanto si legge sui giornali, i libri e la letteratura dell’epoca, la depressione dei 1930 era roba da fame universalizzata, o carestia programmata. Come sai, per chi dalla depressione ci guadagnò, Roosevelt era un comunista. Invece lui dichiarò di avere salvato il capitalismo. Figura molto interessante ma, tutto sommato, storicamente ambigua. Anche perché, visti i ricorrenti dubbi su Pearl Harbour e affini, è attraente il pronunciarsi, ma è altrettanto facile non essere creduti, e quindi mettere in dubbio anche il resto.
S.I. Negli ultimi anni [ma sintomi di questa tendenza già si erano rivelati sotto la presidenze Carter e Reagan] la politica estera imperiale degli stati uniti pare essersi focalizzata su una dicotomia abbastanza interessante. I repubblicani promuovono un esercizio più diretto della forza militare e del potere imperiale, inviando gli “stivali sul terreno”, occupando fisicamente i paesi strategicamente ritenuti essenziali. In questo senso il loro imperialismo è più tradizionale, più brutale. I democratici invece hanno un approccio più raffinato, proclamano la primazia dei diritti civili, destabilizzano i paesi attraverso forme sapienti di ingegnerizzazione del consenso, e poi manovrano dall’esterno il caos che ne consegue utilizzando le varie fazioni contrapposte e, eventualmente, inviando “droni”, armamenti, ma senza intervenire direttamente. Concordi con questa lettura? Non ti pare che questa seconda impostazione sia addirittura più pericolosa della prima?
J.M. Carter e’ stato, a mio avviso, il più umano dei presidenti americani nel recente contesto storico. E’ stata l’unica presidenza durante la quale non fu dichiarata o promossa alcuna guerra, sganciata alcuna bomba o lanciato alcun missile. Non per nulla l’hanno vilificato nel modo piu’ gretto. Bisogna peraltro ammettere che la macchina mediatico-ideologica statunitense è ineguagliabile nel costruire la “verità”, nel ribaltare la storia e nel rendere le menzogne appetibili.
La differenza tra democratici e repubblicani è ad usum delphini. Sono poi alleati formidabili nell’impedire il sorgere di un altro partito (leggi ideologia). Una corrente definizione, abbastanza popolare, su democratici e repubblicani è che sono “Two wings of the same bird of prey”.
Concordo con l’idea che i democratici siano piu’ pericolosi dei repubblicani – anche se, tra i repubblicani, la fazione piu’ rumorosa è quella dei neo-conservatori, born-again-Christians, sionisti sfegatati, promotori di iniziative che sarebbero comiche (per esempio il gruppo “Jews for Jesus”), se non avessero alla base militarismo e imperialismo, senza remore e senza maschera.
S.I. Cosa ne pensi della promozione dei diritti civili come strumento di disgregazione economica e sociale? Negli ultimi anni mi trovo sempre più di frequente ad osservare come molte istanze liberal non siano affatto “disinteressate”. Pare quasi che sia avvenuto un divorzio fra il mercato e certe strutture culturali e sociali, come ad esempio la chiesa e lo stato nazionale, che storicamente hanno svolto una funzione ancillare e di controllo, ma anche di mediazione. Oggi il mercato pare considerare queste strutture degli intralci: non serve più la chiesa se vuole stabilizzare le famiglie, favorire un po’ di equità sociale, fare osservare il riposo domenicale. Serve solo l’individuo nudo, crudo, e con una identità liquida, meglio adattabile alle esigenze del profitto. Questa almeno la mia impressione di osservatore europeo. Vedi qualcosa di simile negli stati uniti?
J.M. America docet. Europa sequitur. Mi permetto di riferirmi ad un articolo sul mio sito, nel quale rispondo implicitamente alla tua osservazione – anche se l’articolo prende lo spunto da un saggio pubblicato in Europa. Sono d’accordo. Senza abbandonarsi a teorie cospiratorie, c’è un movimento in corso per promuovere la neutralità degli orientamenti sessuali e quindi la secondarietà della famiglia tradizionale – concetto promosso pesantemente da Hollywood, la macchina del pensiero. E, hai ragione, il progetto non e’ disinteressato. Slegando l’individuo dalla percezione archetipica della famiglia, lo si controlla ancor meglio.
Davide Amerio
On-line dal 27-11-2015 questa pagina
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