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La vita dell’uomo è connotata, in termini antropologici, da una incessante “ricerca del nuovo”. L’arte è evento collocato in un sito “ideale”, di speculazione intellettuale pur essendo imprescindibilmente correlata con l’ ambito “basso” della tecnica. Si trova quindi ad essere condizionata, nonchè a porsi come condizione dell’evoluzione di quest’ultima, talvolta la precorre, in altri casi vi si accoda pur mantenendo, a mio avviso, un distacco dalla materialità impercettibile ma sempre vigente. Inevitabile, quindi, che la realtà virtuale eserciti un forte potere sull’arte, sia esso di attrazione o di repulsione. La possibilità di creare cloni e mondi paralleli va di pari con l’aspirazione a dotare essi di un’anima, plasmandoli con il soffio vitale della creazione, sostituendosi a Dio come era già intento dell’uomo rinascimentale. L’arte non può quindi che fornire un importante contributo al dibattito vigente sulla dialettica organico/inorganico. Ai giorni nostri i termini della questione, gli elementi dialettici, sono rinvenibili all’interno di un diffuso tentativo di ricostruire un’identità individuale, sottraendola alla dispersione cui pare destinata dai molteplici effetti dell’innovazione tecnologica. Che si manifesta con le apparenze di un Giano bifronte in grado, da un lato, di migliorare la qualità della vita ed aumentare il tempo libero a disposizione, elementi che già Aristotele dichiarava necessari ad un innalzamento del livello culturale del singolo, dall’altro causa di una riduzione dell’esistenza alle esigenze prioritarie dell’immagine, le uniche in grado di certificare, nel flusso caotico della comunicazione, un attestato di identità. Una interpretazione positiva delle tematiche legate al corpo ed al suo dispiegarsi polisensoriale prevede la prevalenza del pensiero della “presenza”, contrapposto a quello dell’ “assenza”. Quindi all’identità dispersa e frammentata, pura forma e significante ridotto a monade incapace di intrattenere rapporti con gli altri da sé, con cui si limita a fugaci ed effimeri contatti, eteree toccate e repentine fughe, in un perpetuo movimento, si sostituisce il contenuto capace di dare significato all’esistenza, di coniugare la “res cogitans” alla “res extensa”, per approdare alla completezza di un essere pacificato in grado di fondersi con il mondo e l’ambiente esterni, di dare vita ad una materia inanimata ed inerte. Per dare corpo al dispiegarsi del libero arbitrio e concretizzarlo nella pienezza dei sentimenti e delle passioni che, tramite l’espressione artistica, possono approdare ad una catartica liberazione.
Questo incipit per introdurre la personale di Ugo Venturini allestita presso la Galleria del Museo d’Arte Urbana, in quanto la sua proposta attuale va in direzione degli assunti teorici prima menzionati.
In un mio precedente testo del 2013, redatto in occasione della presentazione di un catalogo generale sulla sua opera scultorea mi soffermavo, invece, su una sintetica storia di questo linguaggio all’interno dell’avanguardia novecentesca, costantemente caratterizzata dalla volontà di superamento della staticità e della retorica di un monumentalismo di maniera, riscattato, da un lato, dalla rilettura della dimensione classica, dall’altro dalla contaminazione mondana e dalla ricerca di un equilibrio tra artificio e natura.
Così poi delineavo la storia e la personalità di Ugo Venturini, con considerazioni che ritengo di riproporre in quanto valide a tutt’oggi : “L’artista torinese è figlio della generazione anni Ottanta, che ben conosco perchè è quella in cui mi sono formato come critico, vivendone l’evoluzione con intensa carica esistenziale ed empatica. Il lavoro di Venturini è decisamente inseribile in quella linea di eclettismo stilistico che si sviluppa dopo il 1984 ed è vigente, con alcune varianti, fino ai giorni nostri. Un eclettismo che colloca il linguaggio dell’arte, come sottolinea anche il grande teorico americano Arthur Danto, recentemente scomparso, in una dimensione definitivamente post storica, in quanto non dipendente non solo dalla metafisica o dalla politica, ma anche dal recinto di uno stile unico ed uniformante. Le opere di Venturini si affiliano pienamente con quelle degli autori italiani che, dalla seconda metà degli anni Ottanta alla corrispondente fase del decennio successivo, hanno rinnovato il linguaggio della scultura e dell’installazione, trasportandolo dalla tradizione dell’avanguardia novecentesca in direzione di un confronto con l’universo tecnologico e mediale, nonché con le riflessioni sul rapporto tra naturale ed artificiale, in sintonia con la teorizzazione del Posthuman di Jeffrey Deitch. In Italia era attiva, in quegli stessi anni, una linea di tendenza sintonica, che il nostro sistema ha preferito ignorare, favorendo l’ascesa, più di immagine che di sostanza, di un neo concettuale debole e derivativo. Venturini, artista che adopera un materiale nobile e non semplice come il marmo, appare anche in sintonia con quella linea della nuova scultura inglese che, da Moore ed Antony Caro, discende fino a Woodrow, per approdare agli esiti di un artista come Marc Quinn. Il tutto con uno stile assolutamente personale, arricchito da quella dose di consapevole ed irriverente ironia che è peculiare al linguaggio dell’avanguardia italiana. Venturini realizza opere di varia fattura, con una predilezione per esiti in equilibrio tra l’icastico e l’aniconico : strutture biomorfiche inchiodate al suolo con chiavistelli, affinchè non perdano il loro essere “qui ed ora”, composizioni minimali arricchite da inserti polimaterici, icone bidimensionali metalliche con inserimenti oggettuali e brani di scrittura. Ma dove l’artista si esprime con maggiore dirompenza visiva è con le sculture che costituiscono, al tempo stesso, una violazione ed affermazione dei canoni classici della disciplina, come nel caso delle figure extraterrestri dotate di protesi e di ali, dalle fattezze assai poco rassicuranti, o delle mani perfettamente eseguite, come fossero immaginari reperti provenienti dall’antichità, ironicamente impegnate ad afferrare un topolino che pare uscito da un cartone animato, o le concessioni ad uno stralunato e stravolto neo pop.”
In questa personale l’autore presenterà una serie di lavori inediti che vanno in direzione di un annullamento, di un “nulla” che non significa, però, assenza da interpretarsi nella dimensione del vuoto e dell’azzeramento ma, al contrario, in una ambizione vitalistica di espressione di pura energia. Citando parole dell’artista : “Il mio nulla non è assenza o dimenticanza bensì l’esatto contrario quindi presenza e appartenenza….il mio nulla è lì dove l’energia trattiene e collabora con la materia per renderla tale”. Un’azione, quindi, che penetra nei gangli della materia per donarle vita con il tramite della consapevolezza interiore che si tramuta nell’atto creativo.
I quattro lavori inediti che, insieme ad altri, costituiranno il corpo di questa personale sono “Nothing is real (Energia del carattere)”, un ibrido mutante tra un uomo dotato di folta chioma di dread ed i tratti zoomorfi di un cavallo, “Absolutely nothing’s changed (Energia del concepimento o della nascita)”, dove l’artista evidenzia le dissimmetrie tipiche dei nascituri nei primi giorni dopo il parto, “Nothing here (Energia della mente)” in cui Venturini raffigura un’icona della sua e mia generazione, quel Zanardi, creatura grafica del grande Andrea Pazienza, simbolo di una gioventù in bilico tra la rivolta del’77, intrisa di creatività ma anche di angoscia per il futuro, ed il disimpegno individualista del decennio successivo. Zanardi viene proposto privo della parte superiore della calotta cranica, mentre una scritta luminosa appesa al soffitto recita “Nothing here”. Ultimo lavoro “My fair lady (Energia del trapasso o della morte”, dove un corpo femminile viene rappresentato seduto con una postura classica, simile a quella di una pin up intenta ad esibire la sua femminilità in una spiaggia, visione contraddetta con veemenza nella sua dimensione idilliaca dalla presenza di un teschio al posto della testa.
Edoardo Di Mauro
On-line dal 10-03-2017 questa pagina
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