Autore
Giuseppe Cerbino
Sin dal suo libro d’esordio – L’ignoranza della polvere edito da Controluna Editore – Il dettato poetico di Luca Crastolla si caratterizza per una precisione del “vocabolo” sempre più deciso nella direzione di una rottura del discorso e della grammatica. Tanto più esatto esso è, tanto più frastagliata è la sintassi, in quanto la versificazione, nel poeta pugliese, mantiene la sua quota nella voce, parola da cui deriva “vocabolo”. Prima che quest’ultimo si riduca a lemma e a elemento codificale, rivendica il suo ruolo di “urlo”. Questo singolare aspetto permette di riconoscere nella “voce” di Luca Crastolla una naturale “vocazione” non al racconto e alla didascalia (sempre evitata con accortezza da questo poeta) ma alla “denuncia” assimilando così la lezione di grandi poeti conterranei al Nostro come Vittorio Bodini, Vittorio Pagano, Antonio Verri e in parte Salvatore Toma.
Altresì trovo suggestiva la presenza di Carmelo Bene, nel punto in cui anche in Luca, la phoné deflagra rovinosamente come una lava che lascia indovinare le sagome di ciò che ha coperto. Non ci sono le fattezze e i connotati precisi ma solo i contorni che appunto “denunciano” – ritorna ancora la parola – il dramma ma non lo descrivono, non lo esplorano. La parola “urlare”, è una derivazione latina del verbo ululare. Termine che si attaglia perfettamente alla scrittura di Luca; l’ululato, in quasi tutti i canidi – non solo i lupi – ha la funzione di chiamare, convocare a sé, radunare. La poesia di Crastolla è una chiamata, un tentativo di dare conto dello stato delle cose quando c’è un pericolo o un disagio. La condizione di “pericolo”, infatti, è la situazione limite che stimola sempre la forma poetica di Luca il quale apprende dai suoi grandi maestri che il sud è sempre un rischio alla radice della sua stessa memoria.
Da questo humus di premesse germina e si sviluppa questa interessantissima plaquette pubblicata per Gattogrigio, in cui il tentativo dell’urlo per diventare canto – vale a dire il tentativo di passare dal disagio al sublime della fatiscenza– fiorisce nell “incanto” di cui Luca, tuttavia, cerca di descrivere le “sorti” e quindi il percorso. Non manca, anche in questo piccolo libro, la dimensione per la quale il dramma della carne si replica intonso nella parola che è sempre intesa da questo poeta come una sorta di “seconda pelle” in cui la ferita per il sud produce una flogosi che si propaga in profondità fino a diventare intima con la persona e le sue qualità:
Mi feci frase più compiuta nella pelle; ti
indovinai: “queste parole ti stanno
come il midollo all’indole”. Non cercavi
fortuna nell’ancheggiare la tua stella
Sacramento naturale per noi che attendiamo
Quella presente in questa plaquette è certamente ancora una parola ferita, a tratti dilaniata, che conserva la sua “indole” all’urlo ma con la differenza fondamentale, a mio avviso, per la quale cambia la direzione che da orizzontale diventa verticale corrotta da una totale desolazione. La preghiera, insita nel “vocabolo”, fa fatica a diventare invocazione del divino ed evocazione della Storia che ne parla. La parola ormai ha perso il suo indizio di salvezza ed esibisce un perenne inganno.
c’è una religione nella parola
uno spirito santo che discende
e l’usura. L’invocazione: un petalo
poggiarlo sul bordo, trovarvi
una lametta.
Così si sparte e si sparge il sangue
nessun profeta che divida le acque
nessun popolo che le attraversi.
Sulla schiena una cicala pazza di sole
Rispetto a un sud inteso come metafora e didascalia, in questa plaquette il meridione assume una condizione interiorizzata fino a identificarsi con la figura materna; in questo snodo, la vicinanza con Antonio Verri è piuttosto feconda. Ma mentre in Verri, la madre rappresenta la condizione di un passato che interpella il poeta in vista di una responsabilità che non intende più assumersi sacrificandosi per un futuro che tuttavia mai potrà davvero compiersi, in Luca, la madre ( e quindi il sud) è una figura esautorata – “deceduta” dice Luca in una lirica – che non vuole più né essere responsabile né tanto meno responsabilizzare, è una madre che “annaffia scorze” invece che radici, e che ritiene i figli “trascurabili” abbandonati alla loro condizione di perenne scarto. Trovo l’espressione “annaffiare scorze” piuttosto indovinata, oltre che emblematica perché sta a significare come la madre non solo abbandona ma nutre nel figlio la persuasione che l’abbandono è un valore positivo.
Il sud è reso da Luca simbolicamente come un “incanto”, un luogo di vaticini mancati, di valori disattesi: quella di Luca è una terra che genera orfani e che non cerca più il padre ma una terra che alleva figli con difficoltà; è una terra di morti che raccontano la loro storia ma non di vivi che progettano un futuro. Una metafora interessante usata in una lirica di questo libro è quella del “cimitero di solitudini a schiera” in cui la pietra è l’unica “anima caritatevole”; non una pietra su cui edificare una comunità ma una pietra solo da “intaccare con il piccone della rabbia”. La pietra nasconde le tracce di una vicenda che va portata a parola, fino allo spasimo, fino al pianto delle prefiche; ma non c’è speranza perché i morti non risorgono. I versi di Crastolla precipitano seguendo la loro caratteristica di destrutturazione dell’oggetto (il sud) fino alla decomposizione da cui non si riesce più a rinvenire una forma originaria. Prolifera in tutta la silloge uno stato di espropriazione in cui sono presenti “corpi scaduti”, corpi alterati nella loro vocazione alla parola che genera vita, ma sono solo reperti archeologici che non consentono più di parlare. Al loro posto parla il poeta che continua la sua opera di chiamare, di radunare a sé per segnalare il pericolo e poco importa se non ci si salva. L’importante è continuare a gridare.
Giuseppe Cerbino
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Titolo: Le sorti dell’incanto
Autore: Luca Crastolla
Editore: Gattogrigio Editore
Data di Pubblicazione: aprile 2022
ISBN-13: 978-889-6314-29-6
Pagine: 64
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Giuseppe Cerbino
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