DANIELE GALLIANO - I Poeti lavorano di Notte -
a cura di Francesca Alfano Miglietti
di una dorata cupola di stelle."
Galliano dipinge delle icone alle quali è possibile riferire molte metafore concettuali visive, un orizzonte in cui per definire che cosa è o non è umano dobbiamo ricorrere alla mediazione di una serie di costrutti culturali ed è quindi impossibile affermare che esiste un’unica qualità essenziale in grado di tracciare una linea netta tra umanità e non-umanità. In una società nella quale tutto è stato mercificato, riducendo
le persone in uno stato di estrema impotenza, il corpo è ancora una delle poche possibilità di affermare il proprio potere e di esprimersi. Insensibili dal punto di vista emozionale, in preda a una specie di amnesia dei sentimenti, le opere di Daniele Galliano indicano l’esistenza di un conflitto psicologico irrisolto che trova la sua espressione mediante la fuoriuscita da un corpo emozionale. I suoi quadri sono la rappresentazione della società dello spettacolo permanente, immortalati in fotogrammi, come fossero scatti ritrovati. Fanno ricordare quello che abbiamo registrato nel nostro immaginario individuale. “Per tutta la mia vita sono tornato a più riprese su una stessa domanda: qual è la necessità che giustifica la creazione di qualcosa come l’arte?” scrive Joseph Beuys , e sono corpi, orizzonti, musica e metropoli i serbatoi da cui Galliano attinge per una pittura che ha fra i suoi riferimenti il silenzio dell’isolamento e il fragore della folla.... opere pittoriche, dal forte impatto visivo, a volte tormentate, immagini sublimate dai media, la materia grezza per visioni che affondano le mani nell’usuale quotidiano. Tra gli appunti che Benjamin conserva in alcuni quaderni poi confluiti nei Passage di Parigi, c’è un passo tratto da Simmel che descrive la circostanza nuova che si determina nelle metropoli: “chi vede senza sentire è molto più turbato di chi ascolta senza vedere. È un tratto caratteristico della sociologia delle grandi città”. La vista, nelle metropoli, oscura l’udito, e prevale: “prima dell’avvento degli omnibus, delle ferrovie e dei tram del XIX secolo, la gente non si era mai trovata nella situazione di guardarsi in faccia per minuti o intere ore senza rivolgersi la parola”. È la vertigine dello sguardo muto, la stessa che si coglie fissando in maniera prolungata una fotografia avvolta nel silenzio, troppo reale per non ricordarci un qualche rumore di fondo.
Quella di Daniele Galliano è la necessità di trascendere il modello naturalistico per cogliere e
rappresentare l’esistenza nei suoi molteplici piani esperienziali, Galliano mira infatti a descrivere contestualmente, in una continua corrispondenza, mondo esterno ed interno, fisico-sensoriale e psichico-spirituale, una pittura polidimensionale perché unisce l’organizzazione mentale, anatomica e funzionale, motoria e sensoriale del soggetto singolo o di una ‘folla’, alle strutture urbanistiche, all’organizzazione tecnologica, ai cambiamenti più o meno imminenti, futuribili o fantascientifici dell’ambiente geopolitico e sociale. L’individuo di Galliano non esiste se non nel contesto ambientale, e, come un animale lamarckiano, muta in continuazione dovendosi adattare: è un essere senza memoria storica, e spesso anche senza futuro, ma ha un presente che è assolutamente aggiornato, anzi è, per così dire, una specie di sperimentatore del presente e del presente possibile. I microcosmi di Galliano prevedono sempre un mutamento della mente, i suoi soggetti, a loro modo incoscienti e alienati, perseguono progetti di trasformazione dell’organizzazione sociale, in una sorta di oceano di apatia, una sorta di oceano di depressione in cui annegare, una moltitudine che infrange il vissuto di estraneità a se stessi e alla realtà che si esprime nella noia, nella depersonalizzazione, nella frammentazione dell’identità, patologie che implodono sui soggetti in un vacuo tentativo di normalizzazione.
Francesca Alfano Miglietti
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