Il 7 novembre 1999, 20 anni fa moriva a Roma Primo Nebiolo lo storico numero uno dell’atletica mondiale , Presidente del CUS Torino il suo amato Centro Universitario Sportivo torinese dal 1947 al 1999, presidente della federazione internazionale di atletica leggera IAAF dal 1981 fino al 1999.
Primo Nebiolo è stato uno dei più grandi protagonisti nella promozione della pratica sportiva a tutti i livelli e nella creazione di un nuovo concetto di atletica, perseguito attraverso circuiti di meeting che hanno richiamato sempre di più l’attenzione del pubblico, dei media e dei grandi sponsor. Figura poliedrica, Primo ha interamente dedicato la sua esistenza allo sport, prima come atleta, poi come imprenditore e giornalista, diventando, infine, il dirigente sportivo italiano più popolare e più apprezzato anche a livello internazionale (dalla Presidenza della FISU, la Federazione Internazionale Sport Universitario, alla Presidenza della FIDAL, la Federazione Internazionale di Atletica Leggera, fino alla Presidenza della IAAF, l’Associazione Internazionale delle Federazioni di Atletica Leggera, membro della giunta esecutiva del Coni e del Cio, il Comitato olimpico internazionale, dove è stato eletto per la prima volta nel 1973).
È stato ambasciatore del nostro territorio in tutto il mondo, conoscendo personaggi come Nelson Mandela, Fidel Castro, Muhammad Ali, l’imperatore del Giappone Hirohito, e molti altri.
È stato una figura fondamentale per Torino, realizzando un’importante serie di grandi eventi, uno su tutti la prima Universiade estiva del 1959. Nebiolo ha inoltre portato a Torino i grandi campioni mondiali dell’atletica leggera con il Meeting Città di Torino.
Vent’anni fa, il 7 novembre, una telefonata quando il giorno non era ancora fatto e quel poco era grigio. “È morto”. Si svegliò anche mio figlio e, senza chiedere una conferma e senza tirare a indovinare: “È morto Nebiolo”. Così scrissi il “coccodrillo” e due giorni dopo andai a Roma per il funerale. Quel che ricordo non sono i tanti volti, le strette di mano, le parole di circostanza, i ricordi che potevano strizzare qualche sorriso. Sono le lacrime di Angelo Cremascoli, amico e scudiero. Rotolavano, una dopo l’altra. “È morto mio fratello”. Primo era in una bara lucida, già chiusa, nel Salone d’Onore del Foro Italico. Lo portarono a quella chiesona in piazzale Euclide, poi via, sulla rotta del Nord. L’ultimo viaggio, scrisse qualcuno.
Qualche crepa si era disegnata a Budapest, nell’estate del ’98 (“dovrebbe riposarsi ma con lui è un argomento proibito”, confidava Sandro Giovannelli) ma era stato a Siviglia, due mesi prima, il momento in cui avevamo capito quanto fosse stanco. Pranzo al finto-moresco Alfonso XIII, un discorso faticoso, un appoggiarsi al braccio che era un improvviso gravare, la richiesta silenziosa di un sostegno. La carica stava finendo e, insieme, lo slancio vitale. Ma il concetto di resa non gli apparteneva: pensava a Sydney, a Edmonton, a nuove sfide, progetti. Un concetto forzato di immortalità.
Era un cocktail di arditezze, di prudenze, di paure, di arroganze, di potere esercitato con sfrontatezza, di passione forte e sincera per l’atletica. Una vita percorsa tumultuosamente, sempre con una carta d’imbarco – in top class, naturalmente – per ogni destinazione dove spettacolo-denaro-potere-successo-audience erano una parola sola, senza trattini. Aggiungere anche l’amore.
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