Autore
Alice Arduino
Rispetto ai movimenti europei e americani, il femminismo Italiano ha posizioni contrastanti, radicali e critiche sull’emancipazione femminile. Le lotte sono portate avanti principalmente dal Centro italiano femminile (CIF) e dall’Unione donne italiane (UDI), appartenenti rispettivamente alla Democrazia Cristiana e dal Partito Comunista.
Molti gruppi del neofemminismo italiano si schierano contro le leggi di protezione delle donne varate negli anni Settanta criticando le leggi a tutela delle madri lavoratrici approvata nel 1971 che prevede trattamenti di favore nell’orario e nelle mansioni lavorative. In questo modo, implicitamente, viene riconosciuto l’idea che la cura domestica e familiare sia un dovere sociale esclusivo delle donne che devono lavorare e mantenere ordinato il focolare domestico. Il neofemminismo italiano parte dall’idea che la donna “non chieda tutela o protezione, ma il diritto di esistenza […]”, ovvero l’uguaglianza al genere maschile. Le donne, non sono il sesso debole, ma persone che rivendicano il proprio posto nella società al pari degli uomini.
Questo “dettaglio” porterà diversi scontri all’interno dei vari gruppi e movimenti femministi nascenti, soprattutto nella seconda metà degli anni Settanta quando vi saranno le lotte per l’approvazione della legge sul divorzio e sull’aborto. Il movimento di liberazione della donna (MLD) costituito nel 1970 collegato al Partito Radicale ha tra i suoi obbiettivi la liberalizzazione e legalizzazione dell’aborto al fine di conquistare il diritto di disporre del proprio corpo. Il gruppo Rivolta Femminile, invece, a cui fanno capo artiste come Carla Lonzi, Carla Accardi e Susanna Santoro, ritiene che questa legge non ponga un rimedio alla condizione di predominio della sessualità maschile su quella femminile perché lascerebbe una donna “sola, denigrata e indegna verso la collettività”. È necessario rivendicare il raggiungimento del piacere sessuale delle donne staccato dalla finalità procreativa, così da potersi liberare dai preconcetti della donna-madre-moglie legata alla figura maschile. Nel 1973 l’aborto è ancora illegale e verrà approvato solo nel 1978. Sono numerose le manifestazioni per la liberazione e scarcerazione di ginecologi e medici che la praticano in clandestinità. A Milano, inizia l’attività del CISA (Centro d’informazione sulla sterilizzazione e sull’aborto) formato da Emma Bonino, Adele Faccio e Maria Adelaide Aglietta che organizza voli a basso costo per portare le donne ad abortire in Inghilterra in condizioni sanitarie sicure.
In questo panorama, anche in ambito artistico vi è una pluralità di prospettive e di azioni eterogenee che generano forme diverse di media adottati. Il discorso femminista si sofferma sulla possibilità di creare un’arte delle donne con l’intento di decostruire gli stereotipi e far risaltare la donna come essere unico e autonomo.
Gli spunti arrivano dai Lesbian, Gay and Queer Studies che fanno riferimento alla psicoanalisi, la semiologia, la linguistica, la teoria cinematografica, l’antropologia e la sociologia. Le connotazioni di genere pervadono l’ambito dell’informazioni e della comunicazione mediatica legate al linguaggio e all’uso/abuso della figura femminile. Secondo Griselda Pollock esperta di studi femministi nelle arti visive “un opera è femminista quando sovverte i modi tradizionali attraverso cui vediamo l’arte, quando siamo sedotti in maniera complice dai significati della cultura dominante e oppressiva”.
Le numerose artiste iniziano a usare la fotografia come testimone oculare della realtà, si concentrano sulla rappresentazione del corpo (spesso messa in crisi attraverso un processo di frammentazione), lavorano sulla trasformazione dell’identità attraverso uno sguardo che si pone simultaneamente davanti e dietro l’obbiettivo. La donna smette di essere l’oggetto della visione altrui (soprattutto di quella maschile) per dare vita ad un processo di riappropriazione del corpo e della sessualità. La fotografia viene usata come decostruzione del linguaggio mediatico e la critica ai mass-media (pubblicità e fotoromanzo) vengono simulate, decodificate e smembrate, creando nuovi codici di interpretazione.
Nel 1976 Romana Loda, promotrice dell’arte femminista, realizza a Falconara (Ancona) la prima esposizione italiana di fotografia e femminismo chiamata Altra Misura mostrando il lavoro di cinque artiste internazionali: la francese Annette Messanger, la polacca Natalia LL, le nordamericane Suzanne Santoro e Stephania Oursler residenti a Roma e l’argentina Verita Monselles attiva a Firenze.
L’opera che crea più scalpore è sicuramente quella di Suzanne Santoro che presenta la foto di una vagina con un pene disegnato col gesso su un muro romano, diventando la copertina del suo libro “Towards New Expression – Per una Nuova Espressione”, dove Suzanne cerca una riappropriazione femminista della rappresentazione simbolica della sessualità e dei genitali femminili. Il libro verrà censurato e ritirato da varie gallerie e da una mostra londinese.
Anche l’opera di Stephania Oursler in “My First Love” è di forte impatto: ritrae una donna nuda con in grembo un agnello scuoiato riproducendo una iconografia cristiana della Madonna con il bambino trasformato da figlio di Dio ad animale. L’opera ha l’obbiettivo di attaccare le teorie freudiane sotto accusa dalla critica femminista che prevedevano il rapporto madre-figlio come l’unico in grado di dare soddisfazione ad una donna, risarcendola dalle umiliazioni dell’invidia del pene ma del tutto sopita. Più interessante però il libro fotografico “Un Album di Violenza” del 1976 dove attraverso un calendario sono rappresentate ogni mese le foto di una donna uccisa o abusata. Le immagini sono tratte da fatti di cronaca nera reali. La violenza subita dalle donne scavalca le differenze di classe, unificandole in un terreno comune. Le immagini, quasi tutte in primo piano, sono tratte da documenti di identità rimandando alla funzione fotografica dell’identificazione.
L’argentina Verità Monselles fa una critica alla pubblicità che amplifica l’inferiorità della donna come oggetto passivo dello sguardo maschile. Nelle sue immagini rappresenta manichini – uomini come fantocci, privi di vita, lasciando come unica presenza viva, la donna in carne e ossa (Amore, Amore, 1974). Lo stato alienante dei rapporti matrimoniali è messo in luce ponendo la donna come essere pensante e cosciente dello squilibrio di potere dei rapporti esistenti. In Ecce Homo (1976) l’artista si concentra sul corpo femminile nudo e sovverte l’icnografia sacra attraverso le inquadrature e il contrasto le natiche di una modella rappresentano un crocifisso evidenziando il maschilismo espresso dalla cultura cattolica verso l’aborto e il divorzio.
Tomaso Binga alias Bianca Menna ritiene necessario riformulare un linguaggio nuovo che non sia solo in contrapposizione con quello maschile. Anche Binga mette in discussione l’istituzione matrimoniale con l’opera “Bianca Menna e Tomaso Binga Oggi Spose” (1977) ritraendo sé stessa prima in abiti maschili, come sposo e poi in abiti femminili, come sposa, ma cambiando il linguaggio sulla dicitura al femminile “oggi spose” e riportando l’attenzione sulla donna costretta ad assumere il cognome del coniuge dopo il matrimonio perdendo una parte della propria identità
Lucia Marcucci realizza collage e opere fotografiche in cui riflette con atteggiamento ironico la mercificazione sul corpo delle donne. “La ragazza squillo” (1965) ritrae sorridente una ragazza con in mano un’insegna del telefono. Anche Katy La Rocca farà una critica sul sessismo dei media attraverso foto e collage fortemente stereotipate. Le immagini rappresentano donne con spiccati gesti facciali quasi caricaturali assumere il ruolo di madre e moglie in cui sono rilegata (Sana come il pane quotidiano, 1965). Anna Oberto nelle cui opere evidenzia la condizione culturale, sociale e politica della donna sul lavoro, attraverso il collage di foto e articoli di giornale pubblicati, crea opere di denuncia e contrasto sul rapporto uomo-donna (Situazione. Giornali dei giornali, 1971)
Cloti Ricciardi, artista romana nel volume Alfabeta (1975) crea una immagine divisa in due. A destra pone l’elenco delle parole che andrebbero cancellate o sostituite (come casalinga, lucidatrice, dimagrante, virilità ecc.); a sinistra le immagini di donne e compagne del movimento femminista da cui si dovrebbe ripartire per formulare un linguaggio nuovo. Attraverso la pratica dell’identificazione nelle immagini rappresentate vi è l’immedesimazione del sesso femminile verso altre donne, unendole nella lotta.
Marcella Campagnano nella serie L’invenzione del femminile: Ruoli (1974-1980) utilizza l’autoritratto come pratica per riappropriarsi del potere della narrazione e del proprio sé. L’artista coinvolge le compagne del collettivo femminista milanese in una sequenza di travestimenti che le vede impersonare di volta in volta i ruoli stereotipati delle donne come la madre, la prostituta, la sposa, la casalinga, l’amante ecc. etichettando ciò che la società maschilista cuce addosso alla donna, alla necessità di conformarle il loro corpo e la loro identità su canoni prescritti. Il progetto può anche essere letto come una coscienza femminile di ciascuna donna attraverso l’obbiettivo che diventa uno sguardo esterno, maschile, giudicante. Per la realizzazione delle immagini la fotografa allestisce uno studio di posa con un fondale di moquette grigia in cui ritrae a figura intera e con sguardo fisso in camera chiunque voglia farsi fotografare, usando gli abiti offerti per la vestizione sono della ditta di moda Fiorucci.
Secondo Paola Mattioli, artista e ricercatrice sull’identità nel volume “Ci vediamo mercoledì. Gli altri giorni ci immaginiamo”, è necessario ragionare sull’ambiguità dello sguardo e sulla necessità di abbandonare il ruolo di specchio dell’uomo: “Le donne si guardano allo specchio e in questo guardarsi allo specchio quanta parte c’è di tendenza a corrispondere agli stereotipi dell’altro sguardo, e quanta parte di ricerca reale di sé di risposta alla violenza interiorizzata come negazione della propria essenza?”. Nelle sue opere la presenza dello specchio è sempre presente diventando una componente riflessiva e di amplificazione del pensiero femminista. Attraverso lo specchio e gli autoscatti vi è una ricerca identitaria di sé stesse. Un discorso analogo lo farà anche Francesca Woodman, famosa fotografa degli anni Settanta che utilizzava il proprio corpo come centro degli autoscatti delle sue opere. In questa ricerca estetica del copro della donna, della sua mimetizzazione con l’ambiente circostante fondendosi con gli elementi naturali, la Woodman rientra nelle ricerche femministe dell’epoca anche se non si è mai dichiarata una militante, attivista o appartenente a collettivi femministi.
Anche Nicole Gravier lavora sulle immagine dei media. In Mythers et Clichés si autoritrae all’interno di fotografa in posizioni tipiche del fotoromanzo, genere popolare nato in Italia nel dopoguerra e diffuso negli anni Settanta. Gravier ne esaspera le caratteristiche, come la banalità dei discorsi, il pensare all’uomo amato, o circondata da prodotti di bellezza. Le fotografie sono artificiose e corpi estranei creando smagliature all’interno delle rappresentazioni melense del femminile proposto dai media. In questo modo contrappone gli stereotipi romantici dei sentimenti femminili a quelli maschili legati alla politica o alla ragione.
Infine, è da citare Giosetta Fioroni nell’opera La spia ottica realizzata nel 1968 in occasione della rassegna espositiva sperimentale “Teatro delle mostre” in cui l’artista trasferisce l’arredamento della propria camera da letto negli spazi della galleria romana e invita l’attrice Giuliana Calandra ad abitare questo ambiente per un giorno in abiti succinti, costringendo il pubblico a guardare all’interno della stanza attraverso una spia ottica. In questo modo rende evidente il feticismo insito nello sguardo maschile intento a guardare il corpo della donna semi-svestita.
L’arte e la fotografia femminista degli anni Settanta ha voluto lavorare sulla emancipazione della donna dando risalto al corpo come essenza non soggetta allo sguardo maschile, l’identità, come espressione dell’essere da fotografare e fotografato attraverso l’autoscatto, la frammentazione degli stereotipi di genere, e la critica ferrea ai mass media e le pubblicità che vedevano il predominio dell’uomo e la mercificazione della donna.
Su molti aspetti la fotografia di quegli anni può essere considerata moderna e contemporanea. Ancora oggi i cartelloni pubblicitari utilizzano le donne come merce per acquistare prodotti e le pubblicità realizzate, talvolta, sminuiscono le donne alla figura di casalinghe togliendo loro l’emancipazione acquisita negli anni e la realtà dei fatti: oltre ad essere mogli e madri, sono lavoratrici, indipendenti e autonome non più costole dell’uomo ma persone al loro pari.
L’arte ha la necessità di rivendicare ogni giorno queste tematiche perché la strada verso la libertà di pensiero è ancora lunga.
APPROFONDIMENTI
“Arte, Fotografia e femminismo in Italia negli anni Settanta” di Raffaella Perna, Postmedia books, 2013
"Paola Mattioli. Sguardo critico di una fotografa" di Cristina Casero, Postmedia books, 2016
“La fotografia ribelle. Paola Agosti, Diane Arbus, Eve Arnold, Lisetta Carmi, Annie Leibovitz, Vivian Maier, Tina Modotti, Gerda Taro, Francesca Woodman e le altre” di Pino Bertelli - Nda Press - 2015
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