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Talco Web - Alice Arduino
“Nessuno mi aveva mai spiegato perché stessi là dentro. Pensavo semplicemente che ci fossero persone nate con le armi e persone nate prigioniere, come me. Che il mondo fuori fosse uguale a quello dentro. Forse per questo non ho mai pensato di fuggire”.
(Shin Dong-hyuk)
Sono 10 le regole del Campo 14: 1. Non provare a scappare 2. È vietato formare gruppi di più di due prigionieri 3. Non rubare 4. Obbedire incondizionatamente 5. denunciare i sospetti o i fuggitivi 6. fare la spia sugli altri prigionieri 7. finire il lavoro assegnato quotidianamente 8. è vietato l’interazione con persone dell’altro sesso fuori dal lavoro 9. i prigionieri devono lavorare per pentirsi dei loro errori 10. chi viola le regole del campo viene fucilato.
Non c’è scampo! Il Campo 14 è un luogo di prigionia situato nella Corea del Nord vicino al fiume Taedong, a circa 80 km da Pyongyang ed è visibile su Google Maps. Contiene all’interno circa 150 mila prigionieri, è lungo 48 chilometri e largo 24.
Si pensa che i campi in Corea del Nord siano sei, circondati da filo spinato con corrente ad alta tensione e pattuglie di uomini armati sulle torri di guardia. A parte due campi usati come “rieducativi” gli altri sono a regime duro e la manodopera degli internati è utilizzata fino allo sfinimento e alla morte dei prigionieri. All’interno dei campi le guardie hanno potere illimitato. Realizzano fucilazioni, torture, violenza e abusi sui detenuti oltre ad incitare gli altri prigionieri a fare lo stesso ai loro coetanei. Il pasto quotidiano è composto solo da mais, cavolo e sale, non hanno a disposizione sapone, calze, guanti, biancheria intima o carta igienica e sono costretti a lavorare 12-15 ore al giorno. La morte dei detenuti avviene solitamente prima dei 50 anni a causa delle malattie legate alla malnutrizione, alla sporcizia, al freddo e alla scarsa igiene. I campi, così come quelli ideati dai nazisti, erano pensati per contenere e manipolare le menti delle persone, isolandoli e mettendoli gli uni contro gli altri. Vengono prelevati dalle loro abitazioni di notte dalla polizia segreta del Dipartimento di Stato e chi viene internato non ha un processo. In Corea del Nord è normale incriminare i prigionieri a causa del loro legame di sangue per tre generazioni, secondo la legge istituita da Kim Il Sung nel 1972.
Sono solo 68 i prigionieri che sono riusciti a fuggire. Le loro testimonianze sono raccolte dalla Korean Bar Association di Seul e hanno permesso di ricostruire la vita all’interno dei campi, diffondendo le atroci barbarie commesse.
Per capire l’esistenza di questi luoghi di prigionia è necessario fare una premessa sulla dittatura coreana degli ultimi anni. Il problema della fame era una questione diffusa. In tutta la Corea del Nord vi era povertà e mancanza di lavoro.
La Corea del Nord sfrutta la repressione per evitare il collasso. La dinastia Kim, prima con Kim Jong Il poi con il figlio Kim Jong Un, resta in piedi grazie alla dittatura esercitata nel paese. Il lavoro forzato all’interno del campo diventa una vera e propria manodopera. Si allevavano pesci e maiali, si confezionavano divise, si producono cemento e carbone nelle miniere, si realizzano vasi e oggetti in vetro. Ciò che viene prodotto tiene in piedi l’economia in disfacimento al di fuori della recinzione.
Negli anni Novanta l’economia nordcoreana non è in grado di coltivare, comprare o distribuire cibo a sufficienza per sfamare una popolazione di 23 milioni di persone. I campi non sono arabili e il governo non ha soldi per comprare carburante o attrezzature agricole moderne. Per cercare di rendere i terreni fertili si è iniziato a produrre toibee: un concime ricavato da cenere mischiata con escrementi umani, congelato e riutilizzato nei periodi di semina. La carestia ha ucciso un milione di nordcoreani. Inizialmente gli aiuti arrivavano da Mosca ma dopo il crollo dell’Unione Sovietica non vi è stato più alcun accesso. Dal 1995 al 2003 subentrano gli Stati Uniti da sempre considerati il più grande nemico della Corea ma fondamentali nel sostentamento del paese. Il governo intasca i soldi e il cibo donando solo il 30% degli aiuti alla popolazione. Aumenta la corruzione. Dal 2000 al 2008 è la Corea del Sud ad aiutare il Nord con donazioni di cibo e fertilizzanti. Kim Jong Il inizia una propaganda per riportare i contadini a lavorare nelle campagne e a coltivare i terreni. Nove famiglie su dieci tentavano di fuggire dal Nord per dirigersi al Sud o in Cina in cerca di lavoro e cibo. Per evitare lo sfollamento e la desertificazione Kim Jong Il crea nuovi centri di detenzione indirizzati a chi tenta di scappare o spostarsi senza autorizzazione. Per tenere sotto controllo il paese vi è l’incentivo ad arruolarsi nell’esercito, ma lo stipendio è minimo e porta gli stessi soldati alla fame e alla corruzione per sopravvivere. La carestia e le alluvioni influenzarono la distruzione dell’economia nordcoreana e il sistema è al collasso.
La stampa coreana ha sempre negato la presenza dei campi e ha cercato di tenere nascoste le prove della loro esistenza: “In questo paese non c’è alcun problema legato ai diritti umani. Tutti conducono una vita dignitosa e felice” dichiara l’Agenzia di Stato della Corea del Nord nel Marzo del 2006. Se il regime dovesse crollare, la distruzione dei campi sarebbe imminente per non lasciare tracce dei crimini commessi.
In questo contesto si svolge la storia di Shin Dong-hyuk, nato nel 1982, prigioniero per 23 anni, cresciuto imparando solo cosa sia la violenza e a farne un arma per sopravvivere nel Campo 14. È stato educato credendo che il lavoro forzato servisse ad estirpare i peccati commessi dai genitori e per questo le percosse subite erano sempre meritate. Nelle sue vene scorre il sangue dei traditori. L’unico modo per “ripulirsi” è ubbidire agli ordini e rivelare informazioni sugli altri prigionieri.
Il suo corpo è una mappa delle sofferenze subite: sulla schiena ha le cicatrici provocate dalle torture con il fuoco, le caviglie deformate dai ceppi usati per tenerlo appeso a testa in giù durante il periodo di isolamento, sugli stinchi le ustioni del recinto elettrificato, il dito medio della mano destra mozzato all’altezza della falange come punizione per non aver svolto correttamente il lavoro assegnato.
Shin non è a conoscenza di cosa sia la vita al di là della recinzione. Non conosce la geografia, quali siano i paesi confinanti alla Corea o la storia del leader Kim Jong Il. L’educazione scolastica impartita serve ad insegnare le regole e i comportamenti del campo, a crescere bambini succubi e ubbidienti al volere delle guardie/insegnanti, plasmati dalla paura e dalla violenza. Loro possiedono la verità assoluta, contraddirli vuol dire subire tremende punizioni.
I prigionieri internati per crimini politici venivano tenuti in campi separati rispetto a chi era nato lì dentro. In questo modo non vi era accesso ad alcun tipo di informazione proveniente dall’esterno e le menti dei bambini potevano essere modellate con le idee e regole dettate dalle guardie. La scuola primaria e secondaria preparava ai lavori forzati. I bambini spalavano la neve, tagliavano alberi e trasportavano carbone per riscaldare la scuola. Sminuzzavano le feci congelate con le zappe per poi gettarle nelle rastrelliere con le mani nude. I rapporti con i compagni erano avvelenati dalla ricerca del cibo per la sopravvivenza e dalla spinta costante al tradimento. Fare la spia su un compagno era un ottimo modo per guadagnarsi razioni extra e punti agli occhi delle guardie. Le punizioni collettive impartite dagli insegnati, servivano da esempio per denigrare i ragazzi, renderli vulnerabili e succubi. Se non si arrivava alla quota di lavoro giornaliero fissata si era punti con le botte e si saltava la razione di cibo. L’alternativa per sopravvivere era mangiare ratti, cavallette, locuste e libellule. La fame per la mancanza degli alimenti rendeva deboli fisicamente e gli incidenti erano all’ordine del giorno. L’obbiettivo era decimare i prigionieri con i lavori forzati portandoli alla morte.
Uno degli episodi più violenti che Shin ricorda fu quando dovette assistere alla morte della madre e del fratello per impiccagione e fucilazione. Il fatto che fossero parenti non era importante e non fu l’oggetto della sua sofferenza. Furono le torture che subì per essere loro parente. Non aveva rapporti stretti con loro, li vedeva poco e della madre ricorda solo le percosse che prendeva quando le rubava il cibo. Non sapeva cosa fosse l’amore di una famiglia, per lui erano solo due persone contro cui lottare per sopravvivere.
Quando scoprì che entrambi stavano progettando la fuga li denunciò come era giusto fare. Era più fedele alle guardie che a loro, aveva solo seguito la prima regola del Campo “Chi non denuncia un tentavo di fuga verrà fucilato all’istante”. Fare la spia per sopravvivere e avere premi e razioni di cibo era normale. “Eravamo le spie gli uni degli altri […] Chi non ha vissuto in un campo di prigionia non può capire cosa significhi. La violenza non arriva solo dai soldati. Sono i prigionieri stessi a non conoscere nessun tipo di pietà reciproca. Non c’è alcun senso di comunità” racconta Shin. Il campo distorce il carattere delle persone. Se questo concetto viene compreso, allora è possibile capire come Shin, per numeroso tempo negò la sua implicazione nella morte dei familiari. La coscienza e i sensi di colpa arriveranno solo successivamente, quando riuscirà a fuggire dal campo e a relazionarsi con il mondo esterno. Inizierà a capire come le dinamiche vissute fino ad allora fossero sbagliate a farsi domande sui suoi comportamenti, a comprendere e conoscere sentimenti come la vergogna, la fiducia, la tristezza, compassione, amicizia, famiglia, l’amore.
Nonostante avesse seguito il codice denunciando i familiari, la guardia si prese il merito verso i superiori e Shin passò come complice per aver taciuto i piani di fuga. Aveva 13 anni quando fu portato in una prigione sotterranea e incarcerato in una cella grande quanto un quadrato di cemento in cui riusciva a malapena a sdraiarsi. All’interno un gabinetto e un rubinetto d’acqua, due coperte ed una luce appesa al soffitto che rimase accesa per tutto il tempo della detenzione. La prigionia durò 6 mesi. In questo periodo fu torturato, legato a mani e piedi formando una “U”, gli vennero bruciate le natiche e la schiena. Shin ricorda ancora l’odore della sua carne bruciata fino a quando non perdeva conoscenza.
Al suo rilascio fu portato nella piazza centrale del campo, luogo delle esecuzioni in cui assistette all’impiccagione della madre e la fucilazione del fratello. Non provò rimorso o vergogna per averli traditi. Sentiva solo rabbia. Odiava i familiari, per causa loro e della loro stupida idea di fuggire, era stato torturato ed era quasi morto. Quella morte se l’erano cercata e meritata.
Molti si chiederanno se le condizioni del campo non portassero i prigionieri a tentare il suicidio. No. I prigionieri non avevano niente da perdere, nessun passato da rimpiangere, nessun orgoglio da difendere. Non conoscevano la speranza verso un mondo migliore e la vita nel campo per loro era normale. Anche togliersi la vita era vietato. Chi lo avesse fatto avrebbe violato il codice e la sua scelta sarebbe stata condannata e scontata dai parenti. Shin non cadde mai nella disperazione. Non si vergognava di leccare una zuppa caduta a terra, di implorare pietà ad una guardia o tradire un amico. Non aveva coscienza perché tutto era frutto di tecniche per la sopravvivenza.
Durante i sei mesi nelle celle di isolamento conobbe un altro prigioniero. Era probabilmente un detenuto politico che aveva vissuto all’esterno della recinzione e gli parlò della vita fuori dal campo. Shin ascoltava incuriosito le storie di quell’uomo e per la prima volta Iniziò a sognare un mondo nuovo e diverso. Erano soprattutto i racconti del cibo, del maiale fatto alla griglia a innescare in lui questi sogni. Il desiderio di mangiare qualcosa di diverso rispetto alla razione di mais, cavolo e sale accese una fiamma di speranza nella sua vuota esistenza.
Nel luglio del 1998 venne ordinato ai detenuti di costruire una diga nei pressi del fiume Taedong. Il rigido inverno sotto zero, portava le mani dei lavoratori ad incollarsi alle barre di ferro. Staccarle voleva dire portarsi via la pelle dai palmi e dalle dita. Furono molte le morti in questo periodo, toccò a Shin e ad altri sopravvissuti raccogliere i cadaveri dei compagni e buttarli in una fossa comune. Dal 1999 al 2003 lavorò nel mattatoio in un allevamento all’interno del campo dove si macellavano circa 50 maiali all’anno che andavano a beneficio delle guardie e delle loro famiglie. A volte riusciva a rubare pezzi di carne ma non potendola cucinare per via dell’odore e rischiare di essere scoperto, la mangiava cruda.
Nel 2003 venne trasferito in una fabbrica di indumenti del campo e divenne responsabile di cinquanta macchine da cucire e delle donne prigioniere che le manovravano. Qui conosce Park Yong Chul, un altro prigioniero vissuto fuori dal campo da cui apprenderà, il concetto del denaro, dell’esistenza della televisione, dei computer, telefoni cellulari e dell’esistenza della terra tonda. Shin era però più incuriosito dai racconti sul cibo. Per lui la libertà era sinonimo di carne alla griglia. Sarà questo desiderio che lo porterà a progettare un piano di fuga insieme a Park.
Nessuno era mai fuggito dal Campo 14. Shin ci riuscì per un colpo di fortuna usando come ponte, il corpo dell’amico morto elettrificato dai fili dell’alta tensione. Una volta fuori la sua vita era ancora in bilico. Doveva procurarsi del cibo e dirigersi verso la Cina, luogo di cui non sapeva assolutamente nulla se non per via dei racconti di Park. La temperatura era sotto i 12 gradi. Non aveva un cappotto, cibo e denaro ed era solo in un mondo sconosciuto.
Percorse ben 590 km passando per Hamhung, Gilju, Chongjin, Musan, attraversò il confine e arrivò a Helong in Cina. Venne accolto ad Hanawon un centro che ospitava i nordcoreani fuggiti, aiutandoli ad adattarsi alla civiltà, cultura capitalistica, avere documenti e foto identificative. Shin non possedeva un’istruzione e aveva problemi a digerire pizza, hot dog, hamburger, cibi che non aveva mai assaggiato e che il suo corpo non riconosceva. Soffriva di sindrome post-traumatica da stress, era in perenne stato di ansia e paranoia. Non usciva di casa e faticava a lavorare ed integrarsi. Era in evidente stato di shock e fu incentivato a tenere un diario biografico. Presto si sparse la voce tra le associazioni di diritti umani della presenza di un fuggitivo da un campo. Sarà questo l’inizio della sua riabilitazione.
Le notizie sui campi nordcoreani erano praticamente nulle. L’associazione “Liberty in North Korea” sponsorizzò il suo primo viaggio negli Stati Uniti, portandolo a trasferirsi in California dove avrebbe lavorato alla divulgazione della sua storia. Qui collaborerà con l’associazione LiNK, per poi decidere di tornare in Corea del Sud, luogo dove risiede tutt’oggi, continuando ad essere impegnato per i diritti umani. Il suo libro è stato tradotto in molte lingue, la sua storia è stata narrata da giornali come “Guardian”, “Wall street Journal”, “Washington Post”, “New York Times”, “Atlantic”, “Le Monde”, “Der Spiegel”.
Per molti anni Shin si dichiarò “fuggito fisicamente dal campo ma non psicologicamente”. Fu pervaso da incubi ricorrenti, dall’insonnia e fece fatica ad adattarsi alla vita normale. Oggi si dichiara guarito, ma non dimentica il suo passato ed è intenzionato a divulgarlo più che mai: “Un solo uomo che decide di non tacere può contribuire alla liberazione di decine di migliaia di persone ancora prigioniere”. La Corea del Nord commette torture, omicidi e altri tipi di atrocità che possono essere inseriti nella categoria “crimini contro l’umanità”.
APPROFONDIMENTI
“Fuga dal Campo 14” di Blaine Harden, Codice Edizioni, 2014
“Guarire dal Trauma. Affrontare le conseguenze della violenza dall’abuso domestico al terrorismo” di Judith Lewis Herman, Edizioni Magi, 2005.
“Escape from Camp 14: Total Control Zone” documentario di Marc Wiese (youtube in inglese)
“L'ultimo gulag. La tragedia di un sopravvissuto all'inferno della Corea del Nord” di Chol-Hwan Kang e Pierre Rigoulot, Edizioni Mondadori, 2001
“Corea del Nord. Fame e atomica”, di Pierre Rigoulot, Editore Guerini e Associati, 2008
“Il nido del falco. Mondo e potere in Corea del Nord” di Antonio Fiori, Editore: Mondadori Education, 2016
“La ragazza dai sette nomi. La mia fuga dalla Corea del Nord” di Hyeonseo Lee, David John, Edizioni Mondadori, 2015
“Long road home” - Testimony Of A North Korean Camp Survivor, di di Yong Kim, Columbia University Press, 2009
“Per primo hanno ucciso mio padre” film Ispirato alla storia dell'attivista Loung Ung e alle esperienze vissute tra il 1975 e il 1978 in un campo di lavoro. Regia di Angelina Jolie, USA, 2017
The Committee for Human Rights in North Korea - Storie raccontate da fuggitivi dai campi di lavoro in Corea del Nord
Talco Web - Alice Arduino
On-line dal 27-11-2017 questa pagina
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