Autore
Fabrizio Bertolami
E infine ha vinto Donald Trump.
Dopo un anno di campagna pro Clinton su tutti i media americani ed internazionali, molti si sono fatti convincere dalla loro stessa propaganda ed ora si dicono stupiti. In Italia, ad esempio, nella lunga notte elettorale, tutti i canali erano in collegamento satellitare solamente con il comitato elettorale di Hillary Clinton snobbando quello di Trump. Ovvio il “buco” mediatico derivante dall’inattesa vittoria del candidato Repubblicano.
Ma è stata realmente tale o si poteva prevedere con un buon grado di approssimazione?
Credo sia sufficiente osservare la distribuzione del voto popolare e dei delegati conquistati da Trump in questa elezione per comprendere la distanza tra l’elettorato americano reale e la campagna mediatica imbastita dalla candidata democratica.
Ha votato per Trump tutta la “rust belt”, la cintura arruginita , fatta di fabbriche chiuse e attività dismesse. Un tempo patria del “Made in USA” è oggi il cuore degradato di un’America industriale depredata dall’outsourcing verso il sudest asiatico. E’ da questa parte d’America che viene il malcontento verso i trattati internazionali TPP e TTIP, visti come una cessione alla grande finanza internazionale ma senza ricadute per le classi medie e proletarie.
Inoltre è un’area a maggioranza bianca e tradizionalista, zoccolo duro dell’elettorato repubblicano. Non ultimo, rappresenta il blocco agricolo della nazione, storicamente conservatore ed isolazionista. Per la Clinton hanno invece votato gli stati che si affacciano sulle coste est ed ovest, sede dei più importanti comparti economici americano, finanza e tecnologia, in cui si concentrano la maggior parte dell ricchezza e del potere degli USA.
Clinton ha fatto appello alla popolazione cosmopolita e progressista, lottando con Sanders per raggiungere le fasce più basse della popolazione ma senza riuscirvi. Una volta pubblicati, saranno analizzabili i dati dei flussi elettorali che ci diranno dove sono andati i voti ispanici, afroamericani e quelli religiosi o dei giovani. Ma una vittoria così netta contiene i germi di un cambio di paradigma
E’ lo stesso fenomeno già osservato nelle elezioni nazionali francesi, nel referendum sulla Brexit, nell’ascesa impetuosa del Movimento 5 Stelle in Italia o nelle affermazioni elettorali di AFD in Germania.
I cittadini stanno interpretando la realtà alla luce della loro esperienza quotidiana, mediandola con la rappresentazione che di questa danno i media ormai onnipresenti.
La crescente consapevolezza nei cittadini delle ampie contraddizioni del sistema, di una propaganda spinta al parossismo che, ingenerando la reazione opposta, si tramuta in rifiuto, nella sensazione di manipolazione ed il forte contrasto tra il mondo idealizzato e le necessità reali, hanno portato ovunque nel mondo a risultati elettorali “inattesi”. Il realismo delle classi lavoratrici ha vinto sull’idealismo paternalista delle classi dirigenti al governo.
Ora quel realismo si sposa a quello di un presidente che ha fatto più di una dichiarazione clamorosa su tutti i temi di politica estera in un mondo che non vede più gli USA come il dominus incontrastabile delle relazioni internazionali. Queste sono ormai dominate dal ritorno di un’ottica realista in cui ognuno cerca di garantire i propri interessi.
Questa svolta sta avvenendo sotto i nostri occhi e ne sono un ulteriore indizio l’assertività di Erdogan in Turchia, l’interventismo russo in Siria ed Ucraina, le rivendicazioni cinesi sul Mar Cinese Meridionale e le dichiarazioni anti americane del Presidente filippino Dutarte. In Europa diversi governi non stanno ratificando le disposizioni in arrivo dalla UE in merito alle direttive in tema di migranti e fiscal compact. L’Inghilterra esce dall’Unione Europea e altri paesi rallentano il loro ingresso. Gli Stati Uniti arrivano buoni ultimi su questa scena ma, visto il peso, determineranno senz’altro nuovi equilibri.
Durante la campagna elettorale una delle accuse ricorrenti a Trump è stata la sua intenzione di riavvicinare Russia e USA verso una cooperazione di sicurezza ed è stato perciò tacciato di “intelligenza con il nemico” e di essere amico di Putin. Dal punto di vista della scuola Realista delle relazioni internazionali è invece un comportamento assolutamente razionale.
Trump, d’altronde, è tutto fuorché un idealista kantiano. La scuola di pensiero realista afferma infatti che è molto più probabile che attori internazionali egualmente forti come Russia ed USA scelgano di accordarsi tra loro tanto in virtù del costo che entrambi pagherebbero in caso di guerra sia in quella della stabilità più ampia del sistema che implica meno costi per mantenere l’ordine tra le potenze emergenti.
Un accordo tra Russia ed USA sulla Siria e sullo status della Repubblica del Donbass, in Ucraina, sono risultati che si possono raggiungere per via diplomatica. Gli USA non hanno, al momento, la forza di contrastare la crescita di Cina e Russia se non intaccandone la sfera economica. Una guerra convenzionale con uno di questi due opponenti sarebbe improponibile. Se uno dei pilastri della scuola realista è che i rapporti internazionali devono fondarsi sulle effettive capacità (industriali, militari, economiche) degli Stati e non sulle loro intenzioni (ovvero quelle del governo pro-tempore), il secondo è che non è importante qual’è la forma dei governi che raggiungono un accordo tra loro ma il contenuto di esso e gli interessi dei contraenti.
E’ stata questa l’ottica con la quale USA e Cina si sono riavvicinate negli anni ’70, e dello straordinario successo di entrambi negli ultimi 20 anni. E’ questo il motivo della solida alleanza tra la democrazia americana e la teocrazia saudita o il ristabilimento delle relazioni con Cuba. Cosa ci dobbiamo quindi attendere dal nuovo Presidente americano? Trump è un realista e le sue scelte saranno prese, se possibile ancor più, nell’esclusiva ottica di perseguire gli interessi americani. Questi attraversano il versante politico, economico e militare ed hanno impatto su tutte le nazioni, sebbene in maniera differente.
Nel suo programma elettorale ci sono elementi di forte protezionismo e di unilateralismo che avranno un forte impatto sull’economia mondiale, se messi in atto. Il rimpatrio di attività industriali sul suolo americano è già in atto (si chiama in-shoring) ma Trump potrebbe accellerarlo con una politica di sgravi fiscali che favoriscano l’impiego di una vasta manodopera locale la cui paga oraria media è comunque inferiore a quella europea. Anche senza l’approvazione del TTIP i mercati europei potrebbero veder arrivare nuovi concorrenti americani, meno competitivi dei cinesi in termini di prezzo ma più concorrenziali in termini di qualità, tecnologia e certezza del sistema di regole.
Un eventuale rialzo, già a dicembre, dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve, potrebbe far partire poi la corsa al titoli di stato americani ed al conseguente calo del Dollaro nei confronti dell’Euro, ma anche dello Yuan. Ciò porterebbe le merci americane in una posizione di vantaggio in termini di export verso l’Europa e di minori importazioni dalla Cina. Quest’ultima vedrebbe crescere il suo vantaggio di cambio nei confronti dell’Euro e se, malauguratamente per l’Europa, lo status della Cina divenisse quello di “Economia di Mercato”, il vecchio continente verrebbe invaso da fiumi di export cinese, capace di distruggere qualsiasi sistema industriale europeo.
Più lavoro negli Stati Uniti e rendimenti crescenti nelle obbligazioni significano riduzione dei capitali all’estero, con conseguente arretramento dei valori azionari e minori investimenti industriali. Oltre a questo, il rialzo dei tassi americani porterebbe con sé anche quelli europei con l’incubo di poter rivivere il quadriennio 2008/2012 che ha sterminato il 25% della produzione industriale italiana e ha intaccato seriamente quella europea.
D’altra parte un’apertura di Trump verso la Russia potrebbe portare con sé l’abolizione del regime di sanzioni verso quest’ultima permettendo alle aziende europee di poter tornare a fare affari con Mosca. Trump si è già detto contrario al TTIP, in quanto verrebbe limitato nelle sue scelte politiche da un accordo sovranazionale e potrebbe rimettere in discussione il TPP per quanto detto prima in merito alle importazioni dall’Asia.
In termini politici la sua ascesa avrà influenza in seno alla commissione europea sul panorama delle alleanze in Europa in quanto i repubblicani (che hanno vinto anche Senato e Camera dei Rappresentanti), tradizionalmente associati ai partiti di centrodestra , avranno come controparte governi europei ad essi inclini, a parte la Francia di Hollande e l’Italia di Renzi. Con i socialisti francesi che quasi certamente perderanno le presidenziali del 2017 e l’Italia del PD a rischio se al prossimo referendum dovesse vincere il NO, Trump troverà entro l’anno prossimo un Europa a maggioranza di centro-destra e con partiti anti sistema in crescita.
Non è un segreto che in entrambi questi schieramenti vi siano simpatizzanti delle politiche messe in atto dal Presidente Putin. Questo scenario potrebbe semplificare un riavvicinamento tra Russia ed USA anche sulla questione della ragione d’essere della NATO che è stato un altro tema molto controverso della campagna di Trump, e che ha generato molti timori negli atlantisti del’establishment americano. La NATO ha continuato ad espandersi dal 1989 ad oggi sino a lambire direttamente i confini della Russia.
Il confronto di nervi tra le due entità militari non ha tardato a manifestarsi, con la disposizione di truppe nelle repubbliche baltiche in ottica anti russa o il presidio dei cieli del baltico e delle coste del Mar Nero da parte della marina russa per ribadire la propria presenza alle sempre più frequenti navi americane in quelle aree. In Siria russi ed americani si combattono silenziosamente sebbene i secondi si celino dietro a milizie islamiche finanziate con fondi forniti dai sauditi e dalle petromonarchie del golfo.
Anche queste ultime sono parte del riassetto dell’ordine internazionale. Se Trump rispetterà gli accordi con l’Iran, l’influenza dell’islam sunnita intransigente di matrice wahabita si ridurrà, e con essa la forza di ISIS e al Qaeda in tutto il medioriente. E’ pur vero che i sauditi sono comunque intenzionati ad armarsi per contrastare proprio l’Iran sciita ed i loro acquisti sono storicamente rivolti agli Stati Uniti. La Siria è una partita delicatissima che vede al tavolo USA, Russia, Iran, Assad e la Turchia ma di riflesso anche Cina ed EU. Le mosse di Trump in questa vicenda nei prossimi sei mesi saranno molto indicative.
Il nuovo Presidente ha davanti a sé, a partire da gennaio 2017, quattro anni intensi. E’ presto per fare ipotesi ma dovrà soddisfare prima di tutto le richieste degli americani perché è da questi che è stato eletto. I primi mesi di governo lo vedranno impegnato su questo fronte e sugli incontri con gli altri capi di Stato e di Governo. Il riflesso di ciò che deciderà per gli USA si riverbererà su tutto il globo dando forse vita ad una nuova era geopolitica. Lo sapremo all’inizio del suo secondo mandato.
Fabrizio Bertolami
On-line dal 12-11-2016 questa pagina
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