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Il vacillante sistema bancario italiano scatenerà la prossima crisi dell’Europa
Serpeggia un grande nervosismo fra gli investitori nel mondo. Questa settimana i rendimenti dei buoni del tesoro a 10 anni sono caduti al minimo storico; i compratori dei titoli di stato svizzeri a 50 anni sono preparati ad accettare un rendimento negativo. Parte dell’inquietudine deriva dalla decisione della Gran Bretagna di farsi del male facendo un salto nel buio. Il 6 luglio, la sterlina, che ha toccato il livello più basso degli ultimi 31 anni rispetto al dollaro, deve ancora trovare una sala contrattazioni; diversi fondi immobiliari commerciali britannici hanno sospeso il riscatto poiché il valore dei loro asset è inciampato. Un’altra minaccia finanziaria potenzialmente pericolosa si profila al di là del Canale della Manica – dal momento che i deboli creditori sono sull’orlo di una crisi del sistema bancario.
L’Italia è la quarta potenza economica europea e allo stesso tempo una delle più deboli. Il debito pubblico ammonta al 135% del PIL; il tasso di occupazione degli adulti è al di sotto di qualunque paese UE dopo la Grecia. Da anni l’economia è moribonda, soffocata da un’eccessiva regolamentazione e da una scarsa produttività. In un quadro di stagnazione e deflazione, le banche italiane versano in gravi condizioni e sono gravate dal peso di circa 360 miliardi di euro (400 miliardi di dollari) di prestiti marci, l’equivalente di un quinto del PIL nazionale. Complessivamente hanno stanziato solo il 45% di quella somma. Nella migliore delle ipotesi, le deboli banche italiane soffocheranno la crescita del paese; nella peggiore delle ipotesi, alcune falliranno.
Non c’è da stupirsi che gli investitori siano fuggiti. Le azioni delle maggiori banche italiane sono si sono ridotte della metà a partire da aprile, un sell off che si è intensificato dal voto sulla Brexit. La principale preoccupazione immediata è la solvibilità del Monte dei Paschi di Siena, la banca più antica del mondo. I molti tentativi di ristrutturarla si sono rivelati fallimentari: ora vale un decimo del suo valore contabile, e potrebbe benissimo non mostrarsi all’altezza di uno stress test della Banca Centrale Europea nei prossimi giorni (si veda l’articolo).
Le dimensioni da sole rendono pericoloso il caos del sistema bancario italiano. Ma è anche indice di malesseri più grandi nell’eurozona: la tensione fra le norme scritte a Bruxelles e le esigenze della politica nazionale; e il conflitto fra creditori e debitori. Entrambe sono la conseguenza delle riforme finanziare non sufficientemente incisive. Se gestito male, l’Italian job potrebbe rappresentare la rovina dell’eurozona.
Resistete ragazzi, mi è venuta un’idea geniale
L’Italia ha urgentemente bisogno di una grande e coraggiosa ristrutturazione del sistema bancario. Con la fuga dei capitali privati e l’esistenza di un fondo di salvataggio sostenuto dalle banche che viene largamente utilizzato, sarà necessaria un’iniezione di liquidità da parte dello stato. Il problema è che politicamente ciò è pressoché impossibile. Secondo le nuove regole dell’eurozona, le banche non possono essere salvate dallo stato, a meno che gli obbligazionisti non coprano le perdite per primi. In molti paesi le obbligazioni bancarie sono gestite da grandi investitori istituzionali, che conoscono i rischi e possono permettersi le perdite. Ma in Italia, in parte grazie alle fisime della normativa fiscale, circa 200 miliardi di euro di obbligazioni bancarie sono gestiti da investitori al dettaglio. Quando lo scorso novembre alcune banche di piccole dimensioni sono state rattoppate con le nuove regole, un obbligazionista al dettaglio si è suicidato. Ciò ha provocato una tempesta politica. Costringere gli italiani a coprire nuovamente le perdite danneggerebbe fortemente il primo ministro Matteo Renzi, vanificando la sua speranza di vincere il referendum sulla riforma costituzionale di quest’autunno. Renzi vuole che le norme siano applicate in maniera flessibile.
Ma la politica è di scena anche nei paesi dei creditori dell’eurozona. La Germania giustamente sostiene che l’Italia è in gran parte responsabile dei suoi gravi problemi. E’ stata imperdonabilmente lenta nell’affrontare i problemi delle sue banche dissestate, forse perché i creditori regionali sono ammanigliati alla politica locale. Qualsiasi sistema che permetta agli stati membri di scegliere a quali norme conformarsi fa del suo meglio per snervare gli elettori tedeschi. Così come Renzi ha molto da guadagnare dall’attenuazione della portata o dalla sospensione di tali regole, la clemenza potrebbe presentare dei costi politici in Germania, dove si terranno le elezioni il prossimo anno. “Abbiamo scritto le norme del sistema creditizio”, ha comunicato Angela Merkel, in risposta agli appelli di Renzi alla clemenza. “Non possiamo cambiarle ogni due anni”.
Se hanno pianificato questo intoppo, hanno pianificato anche l’uscita
Ciononostante, il primo ministro italiano ha ragione. La pressione dei mercati sulle banche italiano non si acquieterà se non viene riportata un po’ di fiducia, e ciò non accadrà senza fondi pubblici. Se in Italia le regole del bail-in vengono applicate in maniera rigida, le proteste dei risparmiatori danneggeranno sia la fiducia e spalancheranno le porte al Movimento Cinque Stelle, una formazione che attribuisce i gravi problemi economici dell’Italia alla moneta unica. Aumenterà la sensazione che l’Italia stia traendo scarsi vantaggi dalla presunta mutualizzazione dei rischi nell’eurozona, ma che sia danneggiata dai molti vincoli cui quest’ultima è sottoposta – dall’incapacità di avviarsi positivamente verso una crescita più decisa, da un fiscal compact che incatena il suo budget, e ora dalle norme del bail-in che sono nate a seguito della decisione di altri stati di applicare il bail-out alle proprie banche. Se gli italiani dovessero mai perdere fiducia nell’euro, la moneta unica non sopravvivrà.
Non c’è ragione di seguire le norme alla lettera, se così facendo si arriva alla scomparsa della moneta unica. Allora la risposta corretta è la concessione al governo italiano di irrobustire il capitale proprio delle banche vulnerabili con una quantità di denaro pubblico tale da acquietare i timori di una crisi di sistema. Un tale salvataggio dovrebbe avvenire a determinate condizioni: una revisione del sistema bancario italiano che costringa i pesciolini a fondersi e tagli i costi di struttura attraverso l’interruzione della profusione delle filiali nel paese. Per dare alla direttiva europea sul bail-in maggiori possibilità di essere implementata in futuro, questa dovrebbe essere modificata in modo che gli investitori al dettaglio già titolari di obbligazioni bancarie siano davvero tutelati.
E’ più probabile che vi sia una certa mistificazione. Già si parla di un’utile clausola da inserire nella normativa del bail-in che consentirebbe una temporanea iniezione di capitale per il Monte dei Paschi. Sarebbe sufficiente bloccare i prezzi delle azioni in modo che le altre banche italiane, come per esempio UniCredit, possano aumentare il capitale privato. Indubbiamente l’Europa saluterebbe tale risultato come un esempio di solidarietà basata sulle regole. Ma se la storia ci ha insegnato qualcosa, ciò non riporterebbe nemmeno le banche italiane alla salute né tantomeno risolverebbe nessuno dei problemi sottostanti il blocco. Una lezione della Brexit è che sorvolare sul voto dei cittadini non è una strategia sostenibile. La mal costruita architettura dell’eurozona agisce in questo una seconda volta, eludendo le paure di costoro nei paesi dei creditori e dei debitori. Non funzionerà per sempre – ecco perché gli investitori hanno ragione a essere preoccupati.
[Articolo originale “The Italian job”] di The Economist tradotto da italiadallestero.info.
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