Orde di psicologi, psichiatri, praticanti, professionisti, consulenti e vattelappesca potranno correggere ogni mia parola approssimata, terminologia abbozzata, diagnosi affrettata: e ne avrebbero ben donde, immagino. Mi scuso in anticipo, ma non sono un accademico nel campo dei disagi dell’anima: sono solo un onesto osservatore di ciò che credo di vedere in chi mi circonda.
Tutt’oggi, fa più effetto il sangue rosso vermiglio di un taglietto sul dito che non la depressione, d’umore o patologica, che fa soffrire, in quest’epoca e in questo Occidente, credo il 99% dei nati dal 1975 in poi (i dati sono sparati a caso per fare sensazione, ma non distanti dalla realtà). Ma questo è un vecchio ritornello che appartiene alla suscettibilità umana: fa più effetto una statua abbattuta a Nimrud che non Pompei che piano piano si sbriciola.
La cosa preoccupante della depressione però, non è solo questa continua sottovalutazione: clamorosa se si pensa a quanto ancora ci si vergogni di chiedere aiuto per sé o per qualcuno a noi vicino. Credo che questo riguardi il nostro provincialismo, la volontà piccolo-borghese di far credere che tutto sia a posto, tutto vada bene, che non abbiamo nessun panno sporco da lavare in casa. La malattia della modernità e delle metropoli viene così allontanata dai nostri occhi e sminuita. Ma, dicevo, non è solo la sua scarsa considerazione a preoccuparmi, quanto i suoi molteplici fraintendimenti.
Nella maggior parte dei casi infatti si pensa che il depresso sia solo una persona triste che starebbe a letto tutto il giorno, chiusa in casa a lamentarsi; si pensa che gli manchino volontà, coraggio, ottimismo e che dovrebbe darsi da fare per risollevarsi. Si pensa che la depressione sia uno stato d’animo contingente per la rottura con la fidanzatina/o, perché non si trova lavoro o non si ha passato un esame. E da qui, tutto lo scaturire degli equivoci tra semplice nome o aggettivo e patologia vera e propria.
La dico a mala-parole: la depressione è ciò che ci costringe a pensare alla morte, dunque alla vita. E dilaga quando non siamo preparati a tale pensiero. Per questo è pressoché inevitabile: perché abbiamo allontanato tutte le pratiche che, di riffa o di raffa, ci costringevano al confronto continuo con esse: Dio, il rito, il grande teatro, la grande letteratura, il contatto autentico con la natura, le stagioni, il buio. Incapaci del confronto con la morte (e la vita), i depressi veri sono gli iperattivi che si riempiono l’esistenza di cose da fare, di weekend fuori porta, di sveglie all’alba, di attività fisiche, feste, eventi e parchi dei divertimenti (figurati e non). Tutto ciò crea una schiera infinita di insopportabili finto-ottimisti piccolo borghesi dall’iniziativa sempre pronta: drogarsi sarebbe meglio.
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