La ricerca della felicità: dall’uomo faber a quello twitter.
Ognuno di noi assegna alla felicità una sua misura che, se certamente può dipendere dal successo o da una bella giornata, non può certo affermarsi in 140 battute su Twitter.
Il termine felicità deriva dal verbo greco phyo “produco” e implica che dietro la soddisfazione ci sia la capacità di un individuo di costruire la sua fortuna, non a caso la celebre locuzione di Appio Claudio Cieco (350 a.C. – 271 a.C.), politico e letterato romano: “Homo faber fortunae suae.”
Nell’epoca dei social network, però, la lezione, sempre valida, del sapere classico viene ribaltata attraverso iHappy un’analisi sentiment (svolta in base al contenuto di circa 40 milioni di messaggi su Twitter raccolti quotidianamente nelle 110 provincie italiane, vedasi e-book iHappy 2014 Corriere della Sera) che, in occasione della terza giornata mondiale della felicità indetta dall’ONU, svela l’andamento della felicità in Italia nel 2014, mostrando, in modo anche beffardo, la classifica delle città più felici e più infelici e cercando di spiegare quali fattori abbiano contribuito a generare buonumore o tristezza. Tendenzialmente i tweet presi in esame hanno mostrato che la felicità aumenta in caso di bel tempo (vacanze, sole, mare…) e di guadagni (affari, denaro, lavoro…) e diminuisce quando questi “parametri” vengono a mancare.
A che serve questa analisi e soprattutto che senso ha? A essere benevoli poco o nulla.
La pretesa di leggere attraverso un social network (chi scrive usa e apprezza Twitter) le sensazioni delle persone è, livello scientifico, una ricerca ricca di insidie ed errori. Ognuno di noi, infatti, assegna alla felicità una sua misura che, se certamente può dipendere dal successo o da una bella giornata, non può certo affermarsi in 140 battute (tante ne consente Twitter per i suoi messaggi). Nei social network le persone esprimono una sensazione che è per sua natura limitata, a volte esagerata, spesse volte desiderata, qualche volte accaduta. In questo ultimo caso non necessariamente siamo felici ma piuttosto esaltati nel comunicare delle sensazioni positive che raramente hanno cambiato la nostra vita, al più l’hanno arricchita di qualche momento unico.
Come è possibile stabilire che è felice un tweet che racconta, in pochissime parole, una sensazione positiva ma che magari ne nasconde una meno molto ottimistica, come a esempio quello che provo quando vedo un bambino stare in mezzo agli altri sorridendo malgrado sia affetto da una malattia o quello che sento quando bacio la persona che amo che però mi sta lasciando perché deve partire.
Pensare, poi, che esistano isole più felici (la città più felice e quella meno) di altre è un ulteriore forzatura, metodologicamente molto scorretta, perché consegna a chi twitta un potere sugli altri pericoloso: a esempio, può accadere, che una città abbia conseguito una grande soddisfazione sportiva (la promozione della sua squadra di calcio in serie A) e per tutta la stagione i tifosi abbiano seguito le imprese sportive di quei calciatori lodandone i risultati su Twitter (come accade molto spesso da parte degli stessi calciatori che vengono continuamente ritwittati dai media e dai tifosi), ma la stessa città, al contempo, abbia vissuto delle emergenze (a esempio la molto comune chiusura di fabbriche e la conseguente perdita di lavoro o delle emergenze ambientali che abbiano messo a repentaglio la salute in quei territori). Risulta così chiaro che un problema serio possa diventare nei social network marginale rispetto a una soddisfazione effimera (come anche il guadagnare denaro da una vincita) che finisce per distorcere il sentire sociale vero e vissuto di un contesto territoriale, dimenticandosi di chi non ha voce o decide di non esprimerla sui social network e, soprattutto, di chi gode o soffre in modo sempre meravigliosamente differente al di là di cosa decida di analizzare e “capire” chi manipola Internet.
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