Inutile dirlo Facebook è il primo social network mondiale. E’ arrivato primo e resta al comando. Tutti noi chi più chi meno lo usiamo per raccontare le nostre cose, grandi o piccole, e per dare un’occhiata, grande o piccola, a quello che fanno gli altri, amici e conoscenti.
Però Facebook in questa sua ascesa, apparentemente senza limiti, mostra, da ormai un po’ di tempo, una evidente non-evoluzione culturale non tanto dovuta al modo di essere e di comportarsi della sua sterminata community quanto più a sue precise scelte strategiche, volte a renderlo sempre meno network socialmente orientato.
Facebook - si sa - ci vende, ovvero rivende alle agenzie di comunicazione, alle aziende e ai centri di ricerca i dati che ogni giorno lasciamo sulle sue pagine, che, è bene dirlo, non sono nostre.
Questo aspetto appare sempre più chiaro dal continuo inserimento di offerte e di promozioni di prodotti che risultano interessanti per un certo profilo (a es. un appassionato di bici posta le sue foto, si iscrive a gruppi, lascia commenti e, di conseguenza, riceve offerte di prodotti ciclistici) e dal presentare le offerte di prodotti che l’utente ha visto su altri siti (a es.: ho necessità di compare un lettore DVD, vado su Amazon o MediaWorld, cerco un’offerta che mi soddisfi, la guardo, non compro ma mi appare nei giorni seguenti sulla mia pagina Facebook la foto di quel prodotto con il suo prezzo e il link per tornare al sito in cui l’ho visto) alla stregua di come da anni fanno tanti portali legati ai servizi email come Libero e Yahoo, per citarne due.
Questa situazione porta Facebook a regredire verso forme di posizionamento digitale che il suo ruolo di campione acclamato del web non lascerebbe certo presupporre.
La storia di Internet, a livello di largo consumo, dura ormai da 20 anni, un quinto di secolo, e dopo anni di evoluzione, nel bene e nel male, veloce e in avanti sembra, analizzando proprio Facebook, rallentare, guardarsi attorno e muoversi verso forme passate dove io vendo tu compri, tu navighi io ti seguo, tu commenti io ti intercetto.
L’antropologia di Internet dimostra senza nessun dubbio che le persone amano la rete se in essa possono sentirsi libere e non giudicate, il che non significa “ognuno fa ciò che vuole” ma, invece, determina la necessità di costruire una base in cui “tutti si sentono responsabilizzati e rispettati.”
Ma se proprio l’emblema più famoso della rete sociale si comporta da vecchio, un signore senza più linfa nuova, come possiamo ridare spazio a menti e idee fresche?
Innanzitutto mettendo in discussione ogni giorno le forme di potere digitali esistenti (oltre a Fecebook anche Twitter e i presunti nuovi come Ello), mettendogli fiato sul collo, non dandogli tregua se continuano a trattarci come cose e non persone.
In seconda battuta costruendo valori condivisibili e malleabili come quelli della Responsabilità culturale e della Ricaduta sociale, ambiti a cui le persone guardino con fiducia e verso cui possano partecipare senza sentirsi catalogati e promozionati.
Infine creando nuove occasione di socialità su una Rete che parte da Internet ma che si manifesta molto al di fuori di essa, recuperando spazi offline in cui incontrarsi, conoscersi e anche fare business.
Questa strategia - il WEB 3.0 - parte anche dall’Italia, da una Torino innovativa, da dev.officinebrand.it
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