Nell’Unione Europea l’Italia è intorno al 20° posto per la spesa relativa all’istruzione e la formazione. Per sostenere i nostri innumerevoli Beni culturali, invece, spendiamo l'1,1% delle risorse pubbliche a fronte del 2,2% della media Ue a 27. Senza scomodare i primi della classifica - Estonia e Lettonia che mettono da parte cinque e quattro volte più di noi (5% e 4,2%) - è sufficiente guardare cosa fanno i Paesi più vicini a noi: dalla Germania che dedica a questa voce l'1,8%, alla Francia che invece destina il 2,5%, dalla Spagna che arriva al 3,3% al Regno Unito che raggiunge il 2,1 per cento; si avvicina a noi solo la Grecia, penultima con l'1,2%
Dal ministro Giulio Tremonti che disse la bestialità che “con la cultura non si mangia” vedendo negli italiani un popolo solo da rimpinzare nello stomaco, all’attuale ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, che recentemente ha dichiarato, rirendendo un vecchio cliché, che “la cultura è il petrolio dell’Italia” non capendo che il petrolio è una sostanza che si estrae e si trasforma mentre la cultura è un patrimonio che si conserva e si rende accessibile, la situazione è nel Bel Paese è divenuta insostenibile.
Certo il recente decreto legislativo soprannominato Art Bonus consente un credito d’imposta importante – la detrazione del 65% delle risorse impiegate - per chi investa in cultura ma sempre il ministro Franceschini si è affrettato a dire in televisione, in prime time la domenica sera a ChetempoChefa, che ora lui “aspetta al varco gli imprenditori” visto che dispongono di un cotanto strumento fiscale.
Il punto però è un altro, redendo da subito la questione un “uno contro tutti” non comprendendo che un’agevolazione fiscale, per quanto importante, non risolve un problema che ha radici diverse.
Infatti questa situazione è figlia certamente di tempi dove di denaro non c’è ne più, di un periodo di spending review o di un momento di difficoltà istituzionale generale per una politica incapace di rispondere a tanti temi di portata sociale, ma ha una madre che ha le sembianze di una dama colta ma cinica che in questi anni si è aggirata tra Enti e Istituzioni culturali propagando il suo verbo.
La strategia di costei è stata quella di affiancare ai tagli gli opportuni ritagli alla cultura.
Al decrementare delle risorse si procedeva con precisa intenzione a sterilizzare il panorama scientifico italiano assorbendo posizioni e competenze e non restituendole più. Questa scelta ha comportato due grandi fenomeni:
1) La scomparsa delle Università e degli Enti di ricerca quali partner scientifico primario della cultura e dei suoi beni.
2) L’affermarsi di figure di ripiego, attinte dalla politica o da qualche consiglio di amministrazione privato (banche, fondazioni, grosse realtà noprofit…) con mansione di gestione della cultura.
Il panorama è, quindi, cambiato in modo duplice; da un parte tagliato nel suo agire (istruzione, formazione, conservazione…) eliminando le risorse, dall’altra ritagliato nel suo divenire spersonalizzando il rapporto tra cultura e istituzioni di un territorio. Emblematico, in questo senso, è il caso di Torino, città in cui sia l’Assessore alla Cultura che il Presidente e Direttore generale della Fondazione Torino Musei sono statti scelti al di fuori del contesto torinese.
Tagli e ritagli su una delle figure, la cultura italiana, tra le più belle che l’uomo abbia mai creato per vestirla di un abito che le va stretto e i cui sarti hanno poca esperienza, anche di bottega.
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