Autore
Simone Cutri
Goffo pur agile, slanciato d’arti inferiori, fiero nel procedere, alto non troppo basso nemmanco. Il pagliaccio Merendina, in arte Gatti Agostino, entrava in scena all’ora nona della mane. Necessitava, prima d’ingegnarsi nel quotidiano melodramma, d’alcuni comuni rituali. Radeva il viso, v’impressionava un’espressione accomodante, s’abbigliava. Uscendo dalla striminzita dimora, non dimenticava d’indossare la maschera. Artifici altri erano contenuti tra le pelli bordeaux d’una dignitosa valigetta.
Cimentandosi da solo, s’immaginava che la diaframmatica voce d’uno scaltro impresario lo presentasse al pubblico astante: con un tic sollevava le nari fino a mezzo setto e finalmente era pronto. Il copione, invariato da anni ed invariabile, apparteneva senza dubbio alcuno al teatro dell’assurdo; le movenze erano meccaniche e perturbanti; il timbro vocale artefatto. Il dramma così titolato: “Lavoro, Vita Normale e Routine”. Applausi scroscianti, crescenti consensi, buona la critica, adeguati compensi: la messinscena era in cartellone da decenni: faraonici costi di produzione, comparse coinvolte a migliaia, capaci gli attori comprimari con cui talvolta avesse a che fare.
Smessi banalmente i panni dell’istrione, si ristorava che da poco era sorpassata l’ora sesta del meriggio: desinava non d’appetito vero, piuttosto per gusto. Distendeva le affaticate sue membra sulla branda che scassata giaceva priva di lenzuola e, dopo neppure un’ora sul putrido giaciglio, si ridestava e, smettendo la maschera, s’approntava al trucco. Cerone biancastro, lacrime presunte, sorriso invero finto e rosso il nasone a pallina. L’abito spropositato nella dismisura, le scarpe eccessive, accessori. Libero finalmente dai costumi di scena, dai tempi, dal ruolo, dai rimproveri del regista: affezionato quest’ultimo a certi moti del realismo, privo infatti di slanci barocchi.
Merendina il pagliaccio presto s’annoiò della facilità con cui giungeva a far ridere. Cominciò senza dubbio dall’allietare infanti: un fiore annaffiante, una leccornia di panna sul viso, un immotivato ruzzolo, un insensato chiacchiericcio, una bislacca posa lo rendevano di già trionfatore. Si diresse dunque al riso degli adulti: esseri dalle dubbie facoltà umoristiche, è vero: si divertivano infatti soprattutto nell’ascoltare e risentire le stesse parole, nel guardare e rivedere i medesimi gesti foss’anche per decine o centinaia di volte: parendo estasiati d’innanzi a quello che i contemporanei han chiamato “tormentone”. Incredulo, Merendina, si rivolse ad un pubblico meno vasto ma maggiormente stimolante. Ebbe in ubbia loro pure. Fu privo di difficoltà lo stuzzicare la loro voglia di diletto: bastava infatti esprimere opinioni sì bizzarre, ma non distanti dalla verità, sul rapporto tra uomini e donne, sulle manie igieniche delle consorti, sulle difficoltà matrimoniali; e ancora, differente intendere la vita in settentrione e mezzogiorno o adoprarsi nel ridicolo storpiamento di canzoni edite già; funzionò altrettanto spesso l’errare, in forzate maniere, le parole dell’inglese o di qualsivoglia idioma forestiero. Del tutto ormai svuotato da siffatti spettatori, si mise alla prova con loggionisti altroché se acculturati e sofisticati. Mai delusione fu più repentina. S’accorse nemmeno in due lunari sbarcati che l’impresa era comoda. Solo necessitava infatti di scoprire l’acqua calda rivelando orrendi interessi multinazionali o svelare l’ascese politiche di presunti affabulatori di grido. Talvolta era pur consentito suscitare il ghigno della pretenziosa platea canzonando, in eccessi tragicomici, i finali invece sublimi di talune immortali ma trite poesie.
Melanconico fu dunque Merendina nel breve giro d’un solstizio. Rintanato nel suo bugigattolo, spesse volte al volto portava le mani ed ivi piangeva. Curioso destino avere il dono di far ridere gli altri, ma non divertire se stesso mai. “Pur sempre nudi i cherubini sono privi di sesso”, pensò come a consolare se stesso. Volò dunque ai tempi delle lunghe tavolate, del vino d’ausilio alla spigliatezza, del ridere per ridere, ridere per nulla. S’accorse della cilecca d’una notte d’amore, ne sorrise sospirando, non privo tutt’oggi d’un certo pudore. Ripensò all’imbarazzo d’essersi fatto la cacca addosso che era già ragazzo e, non senza certo rimorso, a quando ruppe gli occhiali del nonno. E ancora le cadute sulle scale di scuola, i calci svirgolati, la scarpa che vola oltre la cinta dei giardinetti, i nomi sbagliati quel poco, le camminate degli storpi salvo pentirsene dopo.
Ritrovando l’antico sollazzo, Merendina fu felice d’improvviso e giurò che da quell’illuminato momento avrebbe pensato soltanto a divertire se stesso. Nuovamente la sua persona fu pervasa dall’antica letizia d’un tempo e, scosso dall’incontenibile fremito, si sentì costretto ad uscire per la strada. Corse per le vie buie della cittadina che da anni ospitava le sue peripezie, arrivò al fiume e si chinò come a riprendere il fiato: affannato oltremodo maledì la sua pigrizia, passò la mano tremante tra i suoi capelli ricci e guardò il cielo con l’espressione di chi trionfa dopo fatica immensa; poi riprese la folle scorribanda. Persino un moscerino quella notte, attratto dalla luce della sua anima, morì tra le lacrime esitanti dei suoi occhi lucidi. Scorrendo i metri Merendina, indiavolato d’aspetto e di postura, fu travolto da migliaia di idee strampalate ma d’unico obiettivo: la sua nuova missione prevedeva ora il non fare affatto ridere gli altri: mai. Spogliandosi dai costumi e dal suo ruolo, Merendina, ottenne la subitanea diffidenza della gente che, semmai, rideva di scherno e d’imbarazzo per lui. Procedette nel suo intento riproponendo uno stantio repertorio di vecchie e banali barzellette: spesso errava i finali, sempre fingeva di scordarne dei passi.
Travestitosi infine da persona normale, migrò ad una ragione d’esistenza ancora più nobile: ridere degli altri. Si cimentò in cadute finte presso luoghi affollati e mai mancò di simulare eccessivi dolori; si profuse spesso nel tartagliare e si presentò impacciato d’innanzi alle donne. S’equipaggiò, non in rari casi, di resti d’imprecisati cibi da porre tra i denti e più d’una volta dimenticò apposta la bottega aperta. Avanzi di muco colavano dal suo naso senza esser ripuliti e frequenti erano i forti e fasulli starnuti. Si rese lo zimbello d’interi uffici postali, scordò i soldi a casa e se n’accorse solo dopo aver fatto la spesa. Quasi morì di tisi una sera dentro un teatro, solo per dare fastidio; si fece scoprire ladro dalle cassiere d’un supermercato.
Finalmente, dopo notti stupende, Merendina rallegrato prese congedo. Rincasò stremato, bevve a grossi sorsi e sospirò soddisfatto le note d’un pregiato tabacco. Un lumino arancio vegliava con lui e rendeva solenne la controluce del pagliaccio. Si spaventò infine, dopo aver visto un’ombra di passaggio, poi s’accorse trattarsi dello specchio. Vi si avvicinò e fissò l’immagine melanconica che esso gli restituiva: sorrise di se stesso, di gusto rise degli Altri.
Simone Cutri
On-line dal 20-10-2014 questa pagina
è stata consultata da 1229 visitatori univoci.
Aggrega contenuto